Il metal ha avuto sempre una coscienza critica fin dalle sue fondamenta.
Con l’andare del tempo, questa forma di uso della musica in una direzione costruttiva e riflessiva ha attecchito anche le frange più estreme.
Gli americani
Cattle Decapitation fin dagli esordi fanno parte di questa schiera ma in un’ottica ambientalista, qualcuno li può accusare di sposare estremismi sonori inadeguati alla proposta concettuale, ma sono critiche senza costrutto da parte dei cosiddetti modaioli del pop da classifica.
La band ha imbarcato un nuovo membro nella compagine come seconda chitarra e ha sfornato un grande lavoro.
Un album che sposa ecologia, senso di disagio esistenziale e critica sociale con un impasto che incorpora elementi di death metal ad alta caratura tecnica, black metal, doom e chi più ne ha più ne metta.
Basta sentire brani come “
The geocide”, “
Vulturous”, “
One day close to the end of the world”, dove si immettono dosi sapienti di metal estremo, blast beats, riffing che hanno il calore sulfureo del metallo più nero e il vocione più cavernoso e profondo che ci possa essere.
Ma è anche un chaos controllato e studiato in ogni minimo dettaglio, con straordinarie aperture melodiche affidate a parti cadenzate e solenni dove il singer
Travis Ryan canta pulito con voce sporcata, elegiaca come un profeta moderno e dalla coscienza “verde”.
Questa dicotomia tra parti tirate, aggressive e furenti si sposa alla perfezione nella stupenda titletrack; un pezzo veramente estremo tra sfuriate, riffing serrati e ipercinetici, parti doomy, aperture epicheggianti e solenni ed una conclusione dove il singer adotta un timbro profondo, doloroso e pulito e che si dissolve in un tramonto tragico.
Un lavoro eccelso, dove il metal estremo viene plasmato e sublimato in una profonda riflessione lirica, basta vedere la copertina con il tristo mietitore a fare le veci di
Atlante a portarsi sulle spalle un pianeta morente, c’è ancora tempo per fermarsi.
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