Giunti al quarto capitolo della loro parabola discografica sulla lunga distanza gli
Avatarium ratificano il fatto di possedere una dote rara e cioè la capacità di saper dosare con inventiva e ispirazione (oltre che, perché no? Un pizzico di scaltrezza "commerciale"...) i vari elementi di un suono “classico”, intrecciando influssi di
doom,
hard,
rock,
folk,
jazz e psichedelia in una propria forma espressiva tanto cupa e visionaria quanto ricca di empatia.
Così, mentre l’ombra dei Candlemass si fa sempre meno opprimente (
Leif Edling contribuisce esclusivamente alla scrittura di tre pezzi) il gruppo svedese consolida personalità e carisma, coagulate attorno alle prestigiose figure di
Jennie-Ann Smith (laringe straordinaria per tensione emozionale) e
Marcus Jidell (eccellente chitarrista e produttore) uniti nell’arte (e nella vita …) da un’autentica “affinità elettiva”.
Il contributo dell’organista
Rickard Nilsson (davvero di pregio la sua prova) e del nuovo
drummer Andreas ’Habo’ Johansson (The Doomsday Kingdom) alimenta un continuo incrocio di voci, chitarre, tastiere e ritmiche pulsanti capace di scrutare gli abissi e risollevare lo sguardo verso il cielo, in un crogiolo musicale sinistramente fascinoso, difficile da trascurare.
In “
The fire I long for” il percorso espressivo degli
Avatarium, nella sua appassionata ricerca artistica, assume un encomiabile equilibrio tra le varie sfumature stilistiche, regalando all’astante visioni potenti, dense, fosche ed eteree, piuttosto lontane dalle effusioni manieristiche di tanto “
vintage” odierno.
“
Voices” apre l’albo con il suo palpabile senso di dramma (privo però di patine letargiche …), seguita da uno scorcio di elegante oscurità denominato “
Rubicon” e da una “
Lay me down” veramente emozionante nel suo vagare dolce e ipnotico tra le pieghe del
roots-rock americano.
“
Porcelain skull” è un circolo
doom da cui non si può facilmente sfuggire, “
Shake that demon” graffia i sensi con il linguaggio dell’
hard-rock caliginoso più immediato (qualcosa tra Uriah Heep, Rainbow, B.O.C. e … Ghost), mentre in “
Great beyond” è il leggendario potere evocativo dei Led Zeppelin (ma c’è anche un pizzico di liquidità
Blackmore-iana nelle chitarre …) a essere trasportato di peso nelle apatiche frenesie del terzo millennio.
L’atmosfera crepuscolare e mistica della
title-track funge da preludio al greve lirismo gotico (fin un po’ troppo affine ai Candlemass, invero ...) di “
Epitaph of heroes” e all’arcano affresco emozionale “
Stars they move”, malioso frammento sonoro prelevato da un’ipotetica pellicola
noir anni ’60, edificato sulle seducenti e intense corde vocali della
Smith.
“
The fire I long for” divampa, inquieta, blandisce e cauterizza ed è molto di più della somma di suggestioni musicali diverse, così come gli
Avatarium non possono proprio essere confusi tra i numerosi emuli di Black Sabbath, Coven e Candlemass che affollano la “scena” contemporanea.
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