Ho sempre trovato grossolani e infantili gli scritti fondati su presupposti ipotetici, ma nel caso che ci occupa appare davvero difficile esimersi.
Ecco dunque: inserite in
line up un
Gene Parris qualunque al posto di Sua Maestà
Steve Harris, ed otterrete una band con un riscontro di pubblico e critica davvero limitato.
Questo lo scenario più fosco.
Volendo ribaltare la prospettiva
in melius: come sarebbe “
The Burning” con un
Bruce Dickinson (giusto per dirne uno a caso) al posto di
Richard Taylor?
Ebbene, dopo numerosi ed attenti ascolti la mia opinione è che stringeremmo tra le mani un dischetto sensibilmente migliore, ma non potremmo comunque gridare al miracolo.
Già, perché sebbene abbia trovato la prova canora più convincente e sfaccettata rispetto al (deludente) esordio del 2012, continuo a credere che il timbro lamentoso e privo di colore di
Taylor costituisca il principale fardello a carico del progetto
British Lion.
Anche come
lyricist, peraltro, andiamo maluccio: addentrarsi nei suoi testi significa troppo spesso impelagarsi in un immaginario colmo di luoghi comuni, privo di guizzi e inutilmente retorico.
Allargando il campo d’indagine, ci accorgiamo presto che nel secondo
full della compagine leonina pregi e difetti viaggiano a braccetto, tentando il sorpasso di quando in quando ma terminando la corsa in sostanziale pareggio.
Così, ad una
opening track sorvolabile come “
City of Fallen Angels” (piuttosto fastidioso il nervosismo che pervade la strofa) fa da contraltare la bella
title track, il cui tessuto ritmico galoppante e gli intrecci di chitarra mi hanno ricordato un altro gruppo britannico di cui non mi sovviene il nome…
“
Father Lucifer” avrebbe bisogno di un
chorus memorabile per ergersi dall’anonimato, ma purtroppo ne sfoggia uno insulso a dir poco; il successivo
mid tempo “
Elysium”, dal canto suo, mette in mostra una discreta progressione melodica -oltre ad una linea vocale non così dissimile da quella di “
Cateto” degli
Elii- ed una coda finale intensa e ricca di emotività (qui lasciatemelo dire: bravo
Richard!)
Se le rocciose ritmiche e lo sferragliante basso di
Steve in “
Lightning” ci fanno presumere che “
The Burning” presenti un volto più
heavy e meno
rock, intervengono “
Last Chance” e “
Legend” a farci ricredere: stucchevole il
bridge della prima, mentre nella seconda… tutto è stucchevole, a partire da quel coretto “
oooh oooh oooh” che mi ha ricordato, prim’ancora dei
Maiden, i
30 Seconds to Mars. Ognuno ne tragga le debite conclusioni…
L’
incipit ben bilanciato di “
Spit Fire” ci permette di apprezzare la produzione di
Tony Newton -meno
Steve pigia bottoni e gira levette, meglio è-, mentre “
Land of the Perfect People” convince in virtù dell’azzeccato ritornello.
“
Bible Black”, semplicemente, nulla aggiunge, e se ne sarebbe potuto fare a meno senza grandi patemi; la conclusiva “
Native Son”, invece, vanta una veste semi-acustica ed un piglio intimista gradevoli… ma ci catapulta nuovamente nell’infingardo regno delle ipotesi esplorato ad inizio recensione: provate ad immaginarvela intonata dall’ugola d’oro di
Bruce, e sappiatemi dire…
Chiusura comunque positiva, con un ottimo guitar solo (a proposito: promosse le due asce
Grahame Leslie e
David Hawkins).
“
The Burning” è dunque un prodotto che vive di luci ed ombre, che si fa senz’altro preferire rispetto al primo capitolo ma che, in ultima analisi, interesserà perlopiù i completisti della
Vergine come il sottoscritto.
Gli amanti dell’
hard rock melodico, in ogni caso, concedano pure una possibilità.