In tempi di rinnovato interesse per le sonorità
retrò, sarebbe assai facile etichettare i
Ramrod come l’ennesimo tentativo di allinearsi a un
trend che sta dilagando in maniera piuttosto “sospetta”, ed è per questa ragione che invito caldamente tutti i cultori dell’
hard-rock, del
blues, del
prog e della psichedelia, anche quelli più scettici ed esigenti, a concedere una
chance a questo “
Jet black”, un disco che reclama prepotentemente la loro attenzione in virtù di una serie si peculiarità abbastanza rare, che andremo a trattare brevemente qui di seguito.
Innanzi tutto parliamo d’ispirazione, talmente elevata da rendere le canzoni dell’albo un concentrato di emozioni indifferenti a ogni parametro temporale, per poi passare alle capacità tecniche e interpretative dei protagonisti dell’opera, intrise di un
pathos impossibile da simulare e che non può che essere figlio di una notevole cultura musicale.
La favolosa voce di
Martina Picaro (per chi scrive un’autentica sorpresa …), capace di attingere con carattere alle prerogative timbriche di
Grace Slick,
Sonja Kristina,
Elin Larsson e
Susan Marshall, e la chitarra fremente del fratello
Marco (autore anche di suggestivi contributi flautistici parecchio
Anderson-iani), rappresentano sicuramente i pilastri di un’operazione di assimilazione “attiva” degli assiomi del genere davvero sentita e profonda, perfezionata dal fattivo contributo delle fervide tastiere di
Adriano ‘Roll’ Nolli e delle ritmiche pulsanti di
Emanuele Elia e
Daniel Sapone.
E’ sufficiente un primo contatto con “
Don’t call me sunshine” per rendersi conto che i
Ramrod non ingrossano le fila dei tanti improvvisati
vintage rockers tipici della scena contemporanea … la passionalità trasmessa da questo bruciante e avvolgente
hard-blues venato di
prog riesce a far emergere i piemontesi dal cumulo massificante dei frequentatori della “scena”, e anche quando nella successiva “
Ares call” l’affezione per certi Deep Purple è assolutamente evidente, il risultato non appare per nulla fastidiosamente “forzato” o calcolato.
Il clima notturno e vellutato di “
Sorrow” esalta le doti espressive possedute dalla preziosa laringe di
Martina e se “
Lion Queen” emana suadenti effluvi
southern, “
Glass of wine” amplia i confini sonori del programma (spingendosi a citazioni di PFM e Pink Floyd) e “
Turning bad” ammalia con le sue atmosfere fumose e conturbanti.
La ballata elettro-acustica “
Bluesy soul” è un’altra “palestra” perfetta per sollecitare la fascinosa duttilità vocale della
Picaro, mentre se cercate qualcosa di più spensierato ecco arrivare “
Sweet Mel”, prima che la magia esotica di “
Leda” conquisti definitivamente ogni estimatore della musica scaturita dall’anima.
Nessuna velleità d’innovazione ma molta destrezza, forza espressiva e genuinità nel muoversi tra le pieghe di un suono immarcescibile, rendono “
Jet black” un riuscitissimo esempio di autentica e vitale devozione, consacrando i
Ramrod tra i migliori esegeti dei “classici”, a cui si chiede per il futuro di non “adagiarsi sugli allori”, scongiurando il rischio di rimanere prigionieri di una storia tanto prestigiosa quanto enormemente impegnativa.