Qualcuno si ricorda di
Timmy J. Reilly? No? Peccato, perché vuol dire che non avete fatto i “compiti” e vi siete dimenticati di ripassare la “storia” dell’
hard melodico, di cui i Silent Rage sono stati fugaci protagonisti.
Ebbene, è proprio con quel nome che
Jesse Damon ha incominciato a farsi apprezzare dai
fans del genere, grazie a un lavoro, “
Shattered hearts”, fortemente sostenuto dal celebre mentore della
band Paul Sabu, in grado con il successivo “
Don't touch me there” (un gioiellino da riscoprire, credetemi, in cui il nostro aveva già assunto l’attuale denominazione …) di condurla fino alla nobile corte della Simmons Records.
Esaurita la breve parentesi filologica e nostalgica, concentriamoci sulla nuova fatica discografica solista (la sesta) di
Mr. Damon, “
Damon's rage”, da poco nei negozi sotto il patrocinio della
AOR Heaven.
Iniziamo dicendo che la conferma dell’antico sodalizio con il mitico
Sabu (uno dei miei tanti
eroi personali, per la cronaca …), in sede compositiva, esecutiva e produttiva, giustifica una certa aspettativa,
ahimè alquanto disattesa alla prova dei fatti.
Pur facendo parte di una generazione di bulimici
musicofili abbastanza abituata a tentare di individuare il “buono” di un disco tra le pieghe di rese sonore poco nitide ed esplosive, non si può proprio evitare di rilevare quanto l’albo in questione sia deficitario da questo punto di vista, con suoni impastati e “plastificati” a rappresentare di certo una significativa zavorra applicata a un
songwriting comunque non particolarmente brillante.
Lungo il programma solo raramente si scorge la scintilla capace di attizzare l’attenzione di chi ha amato (e adora tuttora …) gente come Hurricane, Only Child, Kiss e Whitesnake (oltre agli stessi Silent Rage), principali riferimenti di un musicista che se non altro ha mantenuto la sua laringe in pregevoli condizioni di forma.
In tale situazione, salviamo la bella grinta di “
Play to win”, il tipico tocco
Sabu-esco di “
Love gone wild”, l’atmosfera avvolgente di “
Electric magic” e "
Here comes trouble” e poi ancora il virile romanticismo di “
Shadows of love”, mentre altrove qualche intrigante spunto melodico si perde purtroppo in un marasma di confusione e di apatia (e qui caliamo un pietoso velo sull’ennesima maldestra traslitterazione del leggendario tema
Kashmir-iano attuata in “
Flying Dutchman”).
Una delusione piuttosto difficile da dissimulare, insomma, per un lavoro che raggiunge una stentata sufficienza e richiede quanto prima un pronto riscatto da parte di artisti che per vocazione, talento e
pedigree possono e devono fare molto di più.
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