Il brutal death metal di una volta, quello più estremo e oltranzista alla
Devourment,
Disgorge e
Brodequin per intenderci, d’un tratto fu etichettato come brutal slam death metal, per quella irrefrenabile (ma al tempo stesso inutile) necessità di trovare sempre nuove etichette per
the same old shit.
All’epoca i rispettivi singer delle band citate,
Ruben Rosas,
Matti Way e
Jamie Bailey si disputavano il titolo di ugola più brutale e gutturale del pianeta, cantando di amputazioni, massacri, serial killer, metodi di tortura, sangue e viscere.
Quell’attitudine viene presa a modello dagli
Engutturalment Cephaloslamectomy, trio proveniente dall’Indiana, ma semplicemente per scimmiottarla e prenderla in giro. Sin dal moniker, passando per i titoli delle canzoni, e finendo per i riferimenti, ciò che emerge è lo spiccato
sense of humor dei nostri.
Pesantemente messi nel mirino sono i
Devourment. Pensate che l’ep di esordio del 2014 si chiamava “
8.1.2”, a scimmiottare il “
1.3.8” dei
Devourment con tanto di citazione della copertina di “
Molesting The Decapitated”.
Notate qualche somiglianza? Ad ogni modo, la voglia di scherzare dei nostri è solo una parte del platter, perché l’altra parte della faccenda comincia a farsi seria appena si skippa l’intro di 28 secondi, che manco a farlo apposta si chiama “
Worthless Intro You Will Skip”, e ci viene riversata addosso una montagna di brutalità efferata sotto forma di blast beats a mitraglia, devastanti accelerazioni grindgore, vocals ultragutturali, nel nome della sacra triade sopra citata.
Al di là delle facezie, questo è un genere che puoi suonare solo se sei convinto al 110% di quello che fai, e quello che fai deve essere brutale e diretto.
Ecco, gli
Engutturalment Cephaloslamectomy, pur mettendo in mostra una notevole tecnica di base, non ci tengono a tediarci con canzoni lunghe, ma fanno quello che devono fare in maniera veloce, diretta,
in your face. E ciò che ci arriva in faccia lo fa con la pesantezza di un treno merci lanciato alla massima velocità, con una durata media delle canzoni che si attesta non oltre i tre minuti, durante i quali, badate bene, i nostri sono abili anche a variare la propria proposta, soprattutto dal punto di vista ritmico.
Prendete un pezzo come “
I Bless The Slams Down In Africa”, parte groovy e cadenzato, poi va sparato e, quando sembra che la band abbia già detto tutto, verso metà canzone ci mostrano che possono andare ancora più veloci e più brutali, con un’accelerazione spaventosa che sprigiona un’onda sonora che ci incolla alla sedia e ci deforma i tratti del viso.
“
Glam Not Slam” somiglia ad un giro su un ottovolante, si sale, si scende, si accelera, si rallenta, si va sottosopra, ascoltate “
Pour Some Pitriffs On Me” per capire ciò che voglio dire.
Ovviamente non poteva mancare, infine, una stilettata al black metal, con “
No Ghey Black Metal! (Only God Shit)”, che si apre con un true evil screaming black prima di prodursi nella solita macelleria brutal death.
Ovviamente non è tutto oro ciò che luccica, in
primis una produzione troppo moderna, che fa perdere in fascino e brutalità, almeno se paragonata alle uscite di inizio millennio, e in
secundis una proposta musicale che, per densità, intensità e brutalità, non è ancora paragonabile ai numi tutelari del genere.
Tuttavia sia chiara una cosa, questo “
Glam Not Slam” è davvero un bel dischetto e sarebbe bello se le band parodiate, ferite nell’orgoglio, accettassero il guanto di sfida e riprendessero quella competizione ignorante a chi ce l’ha più grosso, giocando a sfornare il disco più brutale ed estremo. Torneremmo indietro di quasi 20 anni, quando eravamo giovani, e conoscevamo tutti i gruppi più estremi e dai nomi più improbabili di tutto il mondo e facevamo a gara a chi ne sapeva di più.