Lasciate perdere immediatamente questa recensione se l’heavy metal, in tutte le sue forme, è il vostro unico ed esclusivo interesse musicale. Qui di metal non c’è assolutamente nulla, anzi, ad onor di cronaca un disco del genere non dovrebbe nemmeno stare qui, vista la distanza dalle cose che di solito trattiamo, anche le più melodiche.
Va da sé che non ce ne importa nulla, e che grazie agli sforzi distributivi della nostrana Frontiers Records, anche l’Italia metallica ha la possibilità di scoprire il talento di Rob Lamothe. Eh sì, perché questo cantautore californiano, da tempo stabilito in Canada nello stato dell’Ontario (a due passi dal lago Erie, per chi avesse il pallino della geografia), non è affatto un esordiente sbarbatello, come avevo ingenuamente pensato dopo aver rapidamente visionato la cover di “Long lazy curve”: il disco in questione è infatti il settimo capitolo di una carriera ultradecennale, che lo ha visto impegnato in una serie di collaborazioni con affermati musicisti americani e, a quanto sembra, a firmare un brano per la colonna sonora di “Melrose Place” (ma visto che io all’epoca ero un ragazzo serio e non guardavo quelle schifezze, non sono in grado di ricordare!).
Chi sia dunque Rob Lamothe l’ho scoperto da un paio di giorni, ma vi assicuro che questo è un lavoro che lascia il segno: rock cantautorale senza troppi fronzoli, semplicissimo e a tratti quasi dimesso, arrangiamenti scarni ed essenziali, e la voce di Rob, non certo virtuosa ma espressiva ed adatta al contesto dei brani, come unica protagonista. Anni luce di distanza anche dall’AOR meno impomatato, o dal rock da classifica di The calling e Nickelback, l’impronta qui è decisamente retrò, quasi seventies oserei dire, nello stile di artisti quali Jackson Browne, John Mellencamp, Warren Zeavon o Bruce Springsteen (il primo ovviamente, non quello di “Born in the USA”!)
Un disco che vive di atmosfere e umori dei più diversi: si passa infatti dal rock allegro e spensierato di “Good enough for me”, “Ain’t broken yet” o “Broke down train”, alle ballate malinconiche di “Ashes to ashes”, “Til forever is over” o “Goodbye Calgary”, in cui compare anche qualche soluzione elettronica. Non mancano nemmeno potenziali hit single come “I am here with you” (leggermente vicina all’AOR) o “I don’t walk alone”, ma in generale tutto il lavoro, nonostante il suo carattere intimista e a tratti acustico, è in possesso di una immediatezza e personalità, che lo rendono un sicuro must per tutti coloro che amano la buona musica, senza nessuna distinzione.
Davvero, non c’è nessuna pretesa dietro questi quarantatre minuti scarsi, se non quella di comunicare un’esperienza, far condividere e provare emozioni, mettere a contatto l’ascoltatore con un pezzo della sua vita, senza pensare a conti in banca miliardari o a passaggi in radio fino alla nausea.
Se il rock deve essere cuore e belle canzoni prima ancora di esibizionismo tecnico o ostentata ricerca di novità, allora Rob Lamothe è un grande artista: il grado di intensità di queste dodici composizioni è incredibile, e anche se difficilmente diventeranno dei classici, sarebbe veramente un peccato lasciarle marcire su uno scaffale… per una volta si può abbandonare l’headbanging e infilare “Long lazy curve” nello stereo, non ve ne pentirete di certo!
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