Da qualche anno esiste una corrente musicale sotterranea che affonda le proprie radici nella psichedelia garage pop-rock degli anni '60 - inizio '70. Bands come Baby Woodrose, Vibravoid, The Sonic Dawn, Ecstatic Vision, Giobia, Earth Drive, hanno rispolverato il sound che impazzava all'epoca soprattutto nella west-coast americana per poi diffondersi ovunque, tra acidi e "flower-power", aggiungendo un pizzico (ma proprio un pizzico..) di modernità e di studio appassionato del periodo storico in questione. Uno dei movimenti più trasversali ed innovativi nella storia della musica rock, un'area che può comprendere a vario titolo nomi come Beatles, Jefferson Airplane, Velvet Underground, Grateful Dead, Pink Floyd (early), Kingsmen, Ventures, Shadows, ecc, pur con differenti impostazioni stilistiche. La base comune può essere individuata nella costante tensione elettrica, nell'atmosfera acida e psichedelica, nella morbidezza insinuante delle melodie e nella capacità di risultare ritmati ed accattivanti allo stesso tempo.
I vicentini
Mother Island entrano prepotentemente in questo discorso grazie al loro terzo lavoro, "
Motel rooms", che esce per
Go Down Records. Sessantiani fino al midollo, propongono una interpretazione garage-psych con forti vibrazioni pop morbide e conturbanti, insieme ad una solida componente "twangy" surf che genera il desiderio di muovere il corpo, di lasciarsi andare ad una sinuosa danza onirica. Qualcuno ha descritto la loro musica come "psichedelia californiana filtrata attraverso una nebbia lisergica britannica", definizione che mi trova pienamente d'accordo. L'atmosfera di questo disco non è soltanto quella assolata ed allucinogena della San Francisco hippie, ma anche quella brumosa, malinconica, nostalgica, delle campagne inglesi. O di quelle venete, magari.
Il lavoro è pieno di piccole gemme che arrivano a noi con mezzo secolo di ritardo, a partire dall'incantevole ed elegante "
Till the morning comes" che farebbe estasiare Uffe Lorenzen (Lorenzo Woodrose) per il suo groove lievemente ipnotico e psicoattivo. Nella uggiosa e tesa "
Eyes of shadow" possiamo notare il contributo decisivo della cantante
Anita Formilan, una sorta di Grace Slick del neo-psychedelic-garage-rock. La sua prestazione vincente e carismatica è assolutamente da sottolineare.
Ma tutta la formazione và elogiata per la freschezza con la quale elabora una materia ultra-vintage, risultando convincente e non così derivativa come si potrebbe pensare. Ascoltate "
Summer glow" e ditemi se non vi viene voglia di essere su una spiaggia di notte, intorno ad un fuoco, a ballare lentamente con gli occhi chiusi e la mente rivolta verso l'infinito. Altre canzoni sopra la media: l'avvolgente ed assolata "
Song for a healer" dove sembra davvero di ascoltare i Jefferson Airplane suonare nel deserto in trip da mescalina, il vitaminico garage-rock "
Santa Cruz" e la lunga e liquida "
Lustful lovers", dove la delicata voce della cantante ci guida in un rilassato viaggio attraverso la psichedelia più rarefatta e narcotica. Grande finale per un album di spessore.
Musica per una cerchia ristretta di carbonari che tengono in vita il culto di tempi passati, anacronistici e perdenti rispetto al delirio tecnologico contemporaneo, ma che fremono ancora di passione davanti ad un rock che possiede tanto feeling ed anima.
Se siete retrò-rockers come il sottoscritto, amate le sonorità del passato, godete ancora del piacere di capolavori come "Surrealistic pillow" e delle "good vibrations" della fine dei sixtiees, non fatevi scappare l'album dei nostri
Mother Island.
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