Non c’è trucco non c’è inganno coi
The Last Seed. I quali, in occasione del secondo
full length, decidono di giocare a carte scoperte, spiattellando la sostanziale continuità col
debut “
Hellboy” sin dall’
artwork di copertina.
Il resto non può che accodarsi: il
black del duo di
Norimberga ha mantenuto il proprio carattere grezzo, ripetitivo e minimale, ma non privo di sporadiche intuizioni melodiche e di un generale respiro epicheggiante.
Esecuzione ed arrangiamenti, dal canto loro, si mantengono ai minimi termini, così come turpi ed acri rimangono i suoni -sebbene, a questo giro, sia stata accordata maggior considerazione a
vocals e
mastering-.
Purtroppo, i Nostri si sono dimostrati costanti anche nei difetti, che individuerei principalmente nell’incessante alternanza tra buoni spunti e scelte infelici e nell’incapacità di mantenere alto il livello dell’attenzione lungo tutta la durata del
platter.
A mio umile avviso, se si propongono sonorità di questo tipo, costituisce già di per sé errore concettuale dilungarsi per oltre un’ora; ciò è a maggior ragione vero laddove, come nel caso di specie, tale ragguardevole durata venga raggiunta annacquando i brani con partiture ripetute all’eccesso.
Peggiorano ancor più lo scenario le numerose parentesi atmosferiche
simil-
ambient, peraltro accatastate stolidamente in coda a brani che avrebbero giovato di maggior snellezza.
Peccato, perché quando i
The Last Seed eludono le ingenuità dimostrano di saperci fare: posate l’orecchio sul feeling occulto di “
Arise”, il cui
incipit mi ha ricordato gli australiani
Moon, o la glaciale frenesia di “
Watchers”, sulla quale aleggia lo spettro dei connazionali
Nargaroth, e capirete che il potenziale per far bene non manchi.
“
Revenant”, per chi scrive, rimane comunque opera sufficiente e nulla più.
Sui
The Last Seed, invece, non me la sento di sbilanciarmi in modo lapidario: di certo non diverranno mai capofila del movimento estremo, ma mi piace pensare che una nicchia underground possano ricavarsela, e che il meglio debba ancora arrivare.
Attendiamo fiduciosi il famigerato spartiacque del terzo album.
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