Anticipato dai singoli "
Fall from Grace" e "
Ghosts" - che già facevano presagire quali fossero le due direzioni prese da questo disco: una prima più antologica (se così si può dire...) dell'ultimo periodo e un'altra che si rifà direttamente al gothic "praticato" da loro stessi e da altri affini verso la fine degli anni ’90 - il sedicesimo album in studio del gruppo di Halifax mette subito in chiaro una cosa: il voler cercare di accontentare un po' tutti. Dato che, in tanti (non il sottoscritto) erano rimasti un po' scontenti dall'ultimo "
Medusa"! Come se, appunto, stavolta i
Paradise Lost abbiano proprio voluto creare una sorta di loro "catalogo dei colori". E, quindi, ci ritroviamo: la traccia che si rifà a quel disco - quell'altra che cerca di citare un preciso periodo - una che tende a voler sottolineare la paternità di quel tipo di genere - ecc.
Non vorrei dire affatto di essere rimasto deluso dal dischetto. Ma, quello che promette (varietà a parte...) nella prima parte, aperta dall'ultimo estratto "
Darker Thoughts" - quanto di meglio ci potessimo aspettare - non viene confermato durante la seconda. Quando si arriva a "
Serenity" tutto torna alla normalità, come se la magia creata fin qui da Holmes e company pare scomparire... Cosa che da certi cavalli di razza non ci si aspetta mica! Sembra, infatti, che qualcosa si sia infranto sullo scoglio. Ed è un vero peccato! Perché, tracce solide come "
The Devil Embraced" e una "
Forsaken" in pieno mid-90s erano riuscite ad elevare la proposta ad un livello veramente alto, seppur non elevatissimo. Quello che, magari, non accadeva con l'album del 2017. Proprio perché lì c'era qualcosa che legava i brani l'uno all'altro e che riusciva a dare un senso di compattezza. Per fortuna in "
Ending Days" troviamo un assolo di caratura superiore (oltreché insolitamente hard rock)! Mentre la seguente pur buona "
Hope Dies Young" pare ricordare i
Moonspell più dark. Così come sovente è possibile udire sia echi dei
Tiamat periodo "
Skeleton Skeletron" (e a seguire) che dei
My Dying Bride, comunque gruppi contemporanei dei Nostri. In chiusura abbiamo "
Ravenghast". Un pezzo che parte abbastanza in sordina per, poi, aprirsi nel far sfociare una bella cavalcata. Purtroppo questa non riesce a sfogarsi completamente e a chiudere in maniera ottima il disco. Che, in realtà, presenta altri due brani come bonus track (come da abitudine per chi decide di firmare per la
Nuclear Blast). Questi si intitolano "
Hear the Night" - in cui, come corista femminile, continua a comparire
Heather Thompson (ora in
Mackintosh) - e "
Defiler". E, non avrebbero affatto sfigurato nella versione standard dell'album! Anzi, probabilmente potevano alzarne la media... Se, appunto, non fossero stati considerati degli "scarti" e avessero avuto la cura adeguata di quelli "titolari".
Al di là delle aspettative che si possono avere e delle critiche che si possono avanzare, non sempre si cerca la perfezione. Ma, allo stesso tempo, non è che alcuni difetti non vadano fatti notare! Ad esempio, sia la traccia numero 6 che la numero 8 non presentano proprio degli arrangiamenti ideali. Nel senso che, non sempre si riesce ad ottenere dai brani tutta la loro potenzialità... Ecco perché, in definitiva, tale disco può essere visto più come una sorta di raccolta di canzoni che come un cosiddetto "mattone" (come fu definito il precedente). Alcuni per quella staticità se la presero addirittura con il nuovo batterista, altri con la suddetta label tedesca per un sound non propriamente piacevole da cogliere alle proprie orecchie. Tutto sommato, stavolta la colpa può essere additata a quella sorta di revival del periodo "buio" della band. Intendo la recente rimasterizzazione fatta su "
Host" e "
Believe in Nothing" dai due leader del gruppo... Ah, anche per questo dobbiamo ringraziare la Nuke!