Qualcuno ha definito i
Silver Mammoth come i "Deep Purple brasiliani del Nuovo Millennio", grazie ad album come "Pride price" (2014) e "Mindlomania" (2015). In effetti nella musica del quintetto di Sao Paulo l'influenza dell'hard britannico settantiano (oltre a Blackmore e soci, anche Black Sabbath e Led Zeppelin) è presente in maniera palese e massiccia. Sarà per le tastiere vintage Lord-iane, per i riff secchi e gli assoli elaborati o semplicemente per l'atmosfera classic rock che trasuda ovunque, ma la formazione carioca sembra davvero catapultarci indietro nel tempo fino all'epoca mitologica dell'hard rock storico.
Però bisogna andarci piano con gli accostamenti troppo impegnativi e roboanti. I
Silver Mammoth sono una band piuttosto giovane ed intraprendente, discretamente valida e capace, con un certo gusto nel songwriting, ma non sono i Purple. E nemmeno i Sabs o gli Zep. Questo non per svilire il loro quarto capitolo discografico, il presente "
Western mirror", ma semplicemente per non caricarlo di eccessive aspettative. Si tratta infatti di un buon disco di genere, con pregi e difetti, canzoni brillanti ed altre meno, nel complesso buono ma non eccellente.
Ad esempio, "
Like a blind man" è un solido rock settantiano con componenti sabbathiane: mid-tempo grintoso e quadrato con intrigante melodia, una certa marzialità di fondo ed una patina metallica a ricoprire il tutto. Ancora più heavy e tirata la seguente "
Beethoven's darkside", che evoca qualcosa dei primi Maiden, mentre "
Rise up" appare come il brano più modernista e metal dell'intera scaletta. Qualcosa molto vicino allo stile Alterbridge/Shinedown, con il giusto mix di durezza ed orecchiabilità. Heavy rock agrodolce.
Però la voce di
Marcello Izzo, ad essere sincero, non mi emoziona più di tanto. Anzi, in alcuni frangenti sembra perdere colpi e faticare a tenere il passo dei compagni. Lo si nota ancora di più nella cover di "
Symptom of the universe", una delle tre presenti nell'album che erano state realizzate per tributi di bands locali a grandi gruppi del panorama internazionale. Il divario con l'inossidabile Ozzy appare nella sua incolmabile evidenza. Una versione che gioca la carta della potenza e della visceralità, ma non sfiora nemmeno le vibrazioni immaginifiche dell'originale.
Sul medesimo piano le interpretazioni di "
Jailbreak" degli Ac/Dc (brano presente nella versione australiana del mitologico "Dirty deeds done dirt cheap") e di "
White line fever" dei Motorhead, trasformata in una visione Purple-iana che lascia quantomeno perplessi.
Risultati più efficaci quando la formazione brasiliana elabora le proprie radici rock e proto-metal in maniera personale, vedi la poderosa ed articolata title-track che si snoda per oltre sei minuti con sufficiente tensione dinamica ed anche una sottile vibrazione di epicità. Bene il bluesaccio "
Roll blues", nel segno della classicità hard seventies, mentre appaiono più stucchevoli e fiacche la ballatona romantica "
Free soul" e la "acoustic version" di "
Natural love", canzone presente nel disco d'esordio della band.
Una prova con alti e bassi da parte dei brasiliani. C'è varietà di sfumature stilistiche, perchè si passa dall'hard classico al metal, dal blues al rock più sentimentale, ma non tutte queste componenti producono risultati davvero brillanti. I
Silver Mammoth sono un gruppo dignitoso, di discrete capacità, ma per il momento mancano ancora di un vero salto di qualità.
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