La prima cosa che colpisce è la splendida copertina realizzata da
Dave Patchett (illustratore noto soprattutto per il suo lavoro con i Cathedral), per poi scoprire che gli
Hex A.D., a me finora sconosciuti, vantano collaborazioni importanti e hanno all’attivo una discografia abbastanza consistente, che mi appresto doverosamente ad approfondire, vista la sorprendente qualità di questo “
Astro tongue in the electric garden”.
Nata dalla cooperazione tra
Rick Hagan (nel
curriculum Paul Di’Anno,
Blaze Bayley e
Tim “Ripper” Owens …) e il mitico produttore
Chris Tsangarides, la
band acquisisce nel tempo l’attuale configurazione e sforna un dischetto davvero imponente, in cui viene realizzata un’interessante sintesi tra
hard-prog,
doom e
heavy psych, confermando la Norvegia una delle nazioni più dinamiche e trainanti dell’intera scena
rock europea.
A chi immaginasse di trovarsi di fronte l’ennesima compagine dedita a una forma di didascalico
retro-rock, indirizzo subito le mie sentite rassicurazioni … i nordici operano un’intrigante e vitale operazione di sintesi della lezione tramandata dai
Maestri, mescolando con acume e gusto Uriah Heep, Deep Purple, Black Sabbath, King Crimson, Pink Floyd e Jethro Tull, arrivando a “scomodare” addirittura vaghe reminiscenze dell’
hard esoterico dei finnici Sarcofagus, un nome da veri “intenditori”.
Insomma, l’impressione è che sia ancora una volta la “cultura”, assieme a talento, vocazione e adeguatezza tecnica, a conferire al prodotto la necessaria dose di
feeling atta a superare un approccio fastidiosamente “scolastico” alle immarcescibili sonorità tipiche del genere.
Dopo “
Elle est mort”, una breve e gioviale (?!)
intro, tocca alla strisciante e maestosa “
Deadly nightshade” attirare prepotentemente l’attenzione di chi ama certi Cathedral (in una logica “chiusura del cerchio” …), i quali, ne sono fermamente convinto, non potranno che finire per apprezzare anche la successiva “
Astro tongue”, una fremente interpolazione Heep/Purple di notevole suggestione.
“
The day the sky exploded” aggiunge bagliori di King Crimson e Jethro Tull al fervido impasto sonico, per un risultato piuttosto “impressionante”, mentre il ruolo del sognante intermezzo “
Au revoir jardin électrique” è quello di preparare l’astante alla corposa conclusione in tre movimenti denominata globalmente “
The moonsoon suite”, sviluppata tra oscure visioni
heavy-blues (“
Hawks & doves”, con
Eirikur Hauksson, di fama Artch, e
Thomas Tofthagen degli Audrey Horne, in veste di graditi ospiti), maliosi riflessi
prog (“
Old bones”, in cui affiorano Genesis e Pink Floyd) e soffusi e liquidi chiaroscuri
psych (“
A stone for the bodies not found”).
In realtà, almeno per i sostenitori del
Cd e della musica digitale, l’epilogo del programma è affidato a “
Grace and pain”, un buon esempio di caliginoso
proto-metal realizzato con il contributo di
Rowan Robertson (Dio, DC4).
Seppur ostentando complessivamente qualche sporadico eccesso ispirativo, non è necessario aguzzare oltremodo i sensi per comprendere il valore degli
Hex A.D., forti di un presente assai convincente ed efficace, in grado altresì di lasciar trasparire la possibilità concreta di un futuro che ne delinei ulteriormente la fisionomia espressiva e l’identità artistica.