Che il debutto eponimo dei
Dukes of the Orient, nobile ed esotico
monicker scelto per la
partnership tra
John Payne (ex-Asia, GPS) ed
Erik Norlander (Last in Line, Lana Lane, Rocket Scientists), fosse solo un prelibato “assaggio” delle enormi potenzialità della coalizione lo speravo ardentemente io e tutti quelli che, stimando enormemente i due principali protagonisti del progetto, avevano rilevato in quei solchi qualche sfocatura espressiva e creativa.
Con il nuovo
album,
Payne e
Norlander, supportati da musicisti meno “celebri” e tuttavia forse più coinvolti e focalizzati, ci regalano un lavoro oltremodo compatto, vibrante e ispirato, in cui convivono contemporaneamente fantasia, immediatezza, romanticismo e melodramma, il tutto plasmato in una maniera che non può che rievocare nella memoria proprio l’approccio alla materia
progressiva ostentata dagli Asia.
La strepitosa voce di
John Payne, versatile e intensa, funge da
fil-rouge a un legame presente ma non “ingombrante”, perché i
Dukes of the Orient dimostrano di possedere una personalità propria e nella loro proposta trovano spazio anche autoctoni richiami a Genesis, Supertramp, Pink Floyd ed ELO, in un bilanciamento tra
pop,
prog e
pomp-rock che appare al tempo stesso peculiare e “familiare”.
Aprire “
Freakshow” con un brano intitolato “
The dukes return” mette in chiaro fin da subito le velleità “combattive” del gruppo … grande melodia (qualcosa tra i Genesis
ottantiani e l’ELO) e un delizioso
break di
sax (suonato da
Eric Tewalt … un’arma supplementare che si rivelerà vincente anche in parecchi altri momenti del programma), rendono l’
opener un bellissimo modo per celebrare il ritorno dei nostri e attirare l’attenzione degli appassionati del settore.
“
The ice is thin” mescola con sensibilità unica enfasi e atmosfere da
vaudeville, mentre con la
title-track dell’albo il clima si tinge di sinfonico
hard-rock (Deep Purple, Quatermass, …) per poi trasfigurarsi con "
The monitors” in un’adescante policromia sonora, dominata dalle lussureggianti stratificazioni dei sintetizzatori.
L’ugola ardente di
Payne conferisce una spiccata tensione emotiva a “
Man of machine” (una specie di
mix tra The Beatles, Alcatrazz e … Muse) e a "
The last time traveller”, una mutevole ed elegiaca narrazione sull’implacabile trascorrere del tempo, dagli accenti vagamente Floyd-
eschi, caratterizzata da una progressione esecutiva da brividi.
Gli estimatori di
David Paich,
Jeff Lynne e
Rick Davies apprezzeranno di sicuro le accattivanti vaporosità di “
A quest for knowledge” e se lo strumentale “
The great brass steam engine” aggiunge un velo di caligine e psichedelia al ricco canovaccio artistico dell’opera, “
When ravens cry“ emerge con prepotenza grazie al suo intenso lirismo e a un catalizzante potere evocativo.
La ballata pianistica “
Until then”, appena meno efficace nonostante l’ennesima emozionante prestazione vocale, rappresenta l’epico finale di un tracciato musicale che consacra i
Dukes of the Orient come autentici campioni del
prog-rock melodico, un ruolo che compete loro non tanto per il “glorioso passato” che li sostiene, ma per lo “splendido presente” che “
Freakshow” disegna in maniera nitida e radiosa.
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