Che io non ami particolarmente i gruppi francesi è ormai cosa nota, e quando posso me ne tengo ben lontano. A volte capita, per fortuna, di dovermi ricredere, perché, come è ovvio che sia, c’è più di una band meritevole di attenzioni e in grado di farmi vincere le mie remore nell’ascoltare prodotti proveniente da oltralpe. È il caso, per esempio, dei
Dead Tree Seeds, che mi hanno stupito proponendo un thrash cazzuto e ben orchestrato, pieno di spunti interessanti e anche di una forte dose di personalità.
Nati a Mantes-la-Jolie nel 2009, pubblicano il primo full length solo quattro anni dopo. Se calcoliamo che il loro secondo lavoro esce a ben sette anni di distanza, mi vien da pensare che la band ami prendersi i suoi tempi, invece di buttare sul mercato prodotti raffazzonati o frettolosi. E se il risultato è quanto possiamo ascoltare su “
Push the button” devo ammettere che la loro politica funziona. L’album, infatti, come già accennato, è molto maturo, e pur non mancando parti molto in your face, i brani sono permeati di interessanti e massicci rallentamenti dove la band riesce ad esprimere al meglio le proprie capacità compositive.
Ho accennato prima ad una certa originalità compositiva, ed in effetti non è semplice individuare punti di riferimento forti nella proposta dei nostri. Mi vengono in mente i Sacred Reich degli anni ’90, grazie alle parti rocciose e ragionate che spesso e volentieri sbucano fuori, mentre quando pigiano sull’acceleratore possono vagamente ricordare i Testament. Ma in entrambi i casi si parla di lievi richiami, certamente non di plagio, in quanto i nostri riescono ad esprimere al meglio le proprie idee originali, basti ascoltare brani come la titletrack o "
No time to complain", oppure la dinamica e diretta "
Fangs of the white wolf", aiutati anche da una produzione molto granitica e compatta, che esalta la proposta della band.
Quello che secondo me differenzia i
Dead Tree Seeds da tanti altri giovani gruppi thrash è l’intelligenza, che li porta a capire quando è il caso di spezzare i brani con inserti narrati, oppure quando è il caso di inserire un rallentamento morboso o un arpeggio decadente, così come quando è il caso di tornare a pestare duro, cosa peraltro che gli riesce bene tanto quanto il resto delle cose di cui ho appena parlato. Insomma, ogni nota ed ogni riff sono messi al posto giusto, ogni variazione è ragionata e non inserita a c***o di cammello, come spesso accade.
Ultima segnalazione per l’ottimo lavoro solista svolto dalle due asce, melodico, dinamico, mai banale, che aggiunto alle linee vocali molto incisive ad opera di
Frank Vortex (finalmente uno che canta e non si limita a latrare nel microfono), rendono il tutto un piatto davvero appetitoso. Fortunatamente a volte l’istinto ti fa fare scelte giuste e risulta più forte del pregiudizio, altrimenti mi sarei perso una realtà da tenere davvero d’occhio, sperando solo che non passino altri sette anni prima che venga pubblicato un nuovo full length.
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