I
The Fizz Fuzz sono il nuovo progetto di
Dandy Brown e della sua compagna di vita
Dawn Rich-Brown. Per chi non è avvezzo al mondo dello stoner/desert rock, diciamo che
Dandy da trent'anni è protagonista in questo ambito come produttore, cantante, compositore e polistrumentista. Nella sua carriera spiccano le collaborazioni con Greg Dulli (Afghan Whigs), con John Garcia nella sua veste solistica, con i nostri Alice Tambourine Lover, oltre ad aver contribuito alla fondazione di due grandi bands come Hermano ed Orquesta del Desierto (dove milita gente come Pete Stahl, Mario Lalli, Alfredo Hernandez).
Dawn è ugualmente attiva nel circuito alternative rock californiano in qualità di cantante, chitarrista ed artista multimediale.
Questo "
Palmyra", che in Europa uscirà per l'etichetta italiana
Taxi Driver Records, non si discosta molto da quanto prodotto nel passato musicale di
Dandy. C'è una venatura psycho-pop più marcata e qualche concessione a tematiche emozionali e gentili, che evocano il caldo sole delle spiaggie di Malibù o Santa Monica e la loro placida atmosfera lontana dalla frenesia metropolitana. Ma nell'insieme non siamo così distanti da certi episodi delle Desert Sessions o dai primi Queens of the Stone Age.
I richiami allo stoner sono più evidenti nella parte iniziale del lavoro: "
Hereby" è un solido mid-tempo di buona energia con mood melodico che ricorda parecchio i Masters of Reality, mentre "
Collapse" è una traccia più ombrosa e sferragliante che si stacca decisamente dal resto. Molta psichedelia, lieve retrogusto bluesy, sottile senso di malinconia, chitarrismo lisergico, per i miei gusti l'episodio migliore del disco.
"
Shame" è un dark-blues notturno e rarefatto cantato a due voci dalla coppia, le impennate nel ritornello ricordano qualcosa dei Fatso Jetson. Nella seconda parte irrompe un assolo rabbioso e torbido, per una canzone non clamorosa ma ben fatta e tutto sommato convincente. "
Conditional love", cantata da
Dawn, "
Dear old" e "
Sunkissed", hanno un taglio più pop-romantico che richiama in qualche modo la fine degli anni '60 ed il movimento "flower-power". Un misto di elettricità e melodia carezzevole, di orecchiabilità non zuccherosa, di ballad al chiaro di luna, che pur non esaltando si fa apprezzare per la gradevole semplicità di artigiani del rock ad ampio respiro.
Invece "
Dark horse II" è un alt-rock dalle sfumature ipnotiche e cipiglio torvo, con un discreto tiro avvolgente ed una struttura abbastanza articolata. Buon brano.
Da segnalare la presenza di svariati ospiti del giro stoner/desert/alternative come
David Angstrom (Hermano, Luna Sol),
Steve Earle (Afghan Whigs),
Mike Callahan (Hermano, Earshot), la coppia bolognese
Alice Albertazzi e
Gianfranco Romanelli (Alice Tambourine Lover),
Mark Engel (Orquesta del Desierto), i quali contribuiscono a vario titolo alla buona riuscita di questo album.
Una prova discreta, non straordinaria ma che vanta un mix di robustezza e delicatezza che non spiace affatto. Il progetto dei coniugi
Brown, se non rimarrà estemporaneo e fine a se stesso, potrebbe ottenere risultati ancora migliori in futuro. Le basi e l'esperienza ci sono.
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