"
Il Fango Elettrico". Cosa vi fa venire in mente un moniker del genere in campo musicale? Magari un tipo di heavy-rock turgido e spesso, spruzzato di vibrazioni hard-stoner e classiche melodie alcoliche di matrice southern? Vocals da whiskey-crooner e chitarre che macinano riff torbidi ed escapismi psycho-bluesy? Moderna tensione muscolare, calore afoso, grinta da biker e vibrazioni di antico rock seventies che profuma di Blackfoot, Grand Funk e compagnia?
Esatto, proprio quello.
Dalle paludi e dalle mangrovie della Florida l'inossidabile
Small Stone pesca questi
The Electric Mud, che avevano esordito nel 2018 con l'album "Bull gator". Questo secondo capitolo "
Burn the ships" non fa che confermare l'ottima impostazione heavy-southern-rock del quartetto americano.
Un mix di granulosità alla Foghound, Roadsaw, Pimmit Hills, Serpents of Secrecy e di improvvise incursioni nell'hard-blues para-lisergico quasi Led Zeppelin-iano.
Una ingegnosa agro-ballad come "
Terrestrial birds" non può non ricordare passaggi del genere "Physical graffiti", contornati dalla struggente malinconia da "beautiful losers" del rock confederato di ogni tempo. Così come lo strumentale "
Leadbelly", con il suo lungo assolo di batteria da parte di
Pierson Whicker, ci riporta alla tradizione di caposaldi seventies come "The mule" o alle suite di Iron Butterfly o Uriah Heep.
Ma nel lavoro troviamo anche canzoni molto più contemporanee, come la sferzante e ruvida "
The first murder on Mars" o le groovy e stoner-blues "
Stone hands" e "
Call the judge", dai ritornelli epidermici ed insinuanti. Roba solida, non sorprendente ma densa di passione e di immaginario da sporchi e malfamati locali del sud degli Usa. Altrettanto convincente la tirata "
Reptile", episodio che parte "in your face" e poi si trasforma in un escapismo jammistico dal sapore psichedelico.
Voce adeguata e chitarre sempre pronte a librarsi in gratificanti assoli, una coppia ritmica elastica e senza troppi fronzoli, ottima capacità melodica molto influenzata dal southern-rock, sono le caratteristiche primarie di questa band e del presente lavoro. Niente più, niente meno.
C'è qualche lieve caduta di tensione, come la lungaggine della articolata "
Priestess" che pare un incrocio tra la versione rallentata dei Maiden ed il blues più sofferto e notturno alla ZZTop. Idea non malvagia, ma un pò troppo estesa. Anche "
The greater evil", con i suoi chiaroscuri ritmici sembra un brano che poteva svilupparsi meglio.
Però alla fine la passione, il ruvido calore e l'irsuto feeling melodico dei ragazzi del Caloosahatche River, risulta vincente. Gente con le radici ben salde nel proprio territorio geografico e musicale, tutt'altro che innovatori o sperimentatori ma capaci di trasmettere con forza il mood energico e coinvolgente dell'heavy-blues caratteristico delle loro latitudini.
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