Da un lato, i
Prosternatur sono una tra le tantissime band black metal delle quali non si sa nulla: provenienza, identità dei membri, nulla, se non il fatto che
sono (?) europei; dall'altro, non possiamo certo affermare che si tratti di un progetto black metal qualsiasi. Nel 2016, infatti, fui sconvolto dal debut
"Abyssus Abyssum Invocat" che per personalità e capacità di disturbare l'ascoltatore - pur intrappolandolo febbrilmente in una coltre densa e malsana - aveva dimostrato di avere davvero pochi rivali tra le uscite degli ultimi anni. Con il presente
"Mortuus et Sepultus", il nome Prosternatur torna ad alimentare i nostri incubi, tormentandoci con 41 minuti di black metal occulto e rituale nel quale la formula proposta nel disco precedente viene qui ribadita senza radicali stravolgimenti ma presentando sei nuovi brani freschi e ben capaci di colpire nel segno. Tra le novità annoveriamo una più spiccata componente evocativa, giocata su tempi talvolta leggermente meno frenetici del debut e su un uso più diffuso di arpeggi inquietanti e vocalizzi più teatrali e variegati a livello delle tecniche utilizzate. Se il disco del 2016 trovava il suo perno nell'effondere una certa sensazione di frenesia, "Mortuus et Sepultus", invece, enfatizza maggiormente la componente ipnotica già presente, comunque, in "Abyssus...". Lungi dall'essere un disco "atmosferico" nel modo in cui Battle Dagorath o Paysage d'Hiver interpretano il black metal, il presente lavoro prova - e riesce pienamente - a dare consistenza all'angoscia che si cela in ognuno di noi. Con i Prosternatur non ci troviamo sotto la volta stellata ma rinchiusi nelle nostre ossessioni, condannati ad avere a che fare con ciò che in noi stessi ci è estraneo. Dalla dipendenza che induce il disco ne deduco che tutto sommato vi è un sentimento quasi di conforto nel rimanere chiusi in se stessi a scontrarsi coi propri demoni... salvo poi essere risvegliati dal torpore - a cui il disco stesso sapientemente ci induce - dal tremolo spettrale dei riff più efferati dei nostri.
L'album ci espone ad un'esperienza potente, intensa, forse maneggiabile con più agevolezza (va be', si fa per dire...) rispetto al disco precedente ma non per questo meno ricca di stimoli. Il consiglio è quello di far partire in cuffia la prima traccia e lasciar fluire il disco senza cercare di razionalizzare ciò che sta accadendo, rinunciando alla pretesa di ricondurre ciò che sentite alla classica forma canzone: abbandonatevi, fatevi sto trip e quando meno ve lo aspettate vi ritroverete catturati tra le spire di un serpente che non potete domare. Inutile e controproducente resistere, tanto vale lasciarvi divorare e acconsentire a godere dell'incubo che state vivendo.
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