Il pregio maggiore dei danesi Koldborn, band qui al secondo disco, è quello di sapere interpretare il death metal nella sua accezione più “pura”, cioè un fottuto massacro.
L’impatto di questo “The Uncanny Valley” è qualcosa di devastante, è come si venisse a sbattere in faccia una portaerei della classe Nimitz con il suo propulsore nucleare alla massima potenza.
Dall’inizio alla fine, passando per vere e propri compendi di brutalità quali “Last Message” o “A Destined Predicted”, ci troviamo di fronte ad un ibrido tra Immolation e Unearth, il death metal, quello più groovy e violento unito al thrash/metalcore più inveteriato, con un sound che è semplicemente mastodontico nel suo incedere inarrestabile, inesorabile, con una foga che spesso si tramuta in accelerazioni di batteria che farebbero impallidire il più belluino dei grinders.
Munito di un growl davvero ruvido e brutale, il disco alterna momenti di furia cieca a momenti di puro mosh, con ritmiche granitiche, cadenzate, pesanti come macigni.
La canzone di chiusura, “Relativity”, è la pietra tombale su quel che resta dei nostri padiglioni auricolari, espressione di una filosofia che impone di non arretrare mai, nemmeno di un millimetro, bensì di andare avanti, senza posa, maciullando e travolgendo tutto quello che si para innanzi, in un impeto che ha dell’impressionante.
In genere in un disco la monoliticità e la scarsa originalità sono un difetto, ma i Koldborn ne hanno fatto uno state-of-art. Qui non c’è pane per i deboli, c’è solo una fottuta e impressionante prova di forza, che va incoraggiata, incensata, osannata, fino a che non resterà più nulla da devastare. “Only The Strongest Survive” come diceva qualcuno…
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