A lasciare il segno in questo album, più che la musica (di cui avrò modo di parlare in seguito) è l’attitudine dei
Deadburger Factory che si declina in una cura maniacale per il dettaglio, tanto nella forma - il packaging e il booklet dell’album sono spettacolari, così come la documentazione a corredo - quanto nella sostanza (anche se un po’ troppo affine a certa sinistra nostalgica, forse anticapitalista e sicuramente “combattente”, almeno per la mia sensibilità di trentaquattrenne politicamente impegnato, liberale e moderato).
“La Chiamata” completa il dittico inaugurato con il precedente
“La Fisica Delle Nuvole” (che in tutta sincerità non ho ascoltato) e ruota intorno all’immagine guida dell’album, quella di un druido allucinato dal fare sciamanico che si ritrova in un centro commerciale e suscita (o forse no?) l’interesse dei tanti clienti presenti, chini sui loro smartphone nel migliore - e forse un po’ abusato - immaginario contemporaneo, quello dell’
io a discapito del
noi (oggettivamente attuale come non mai).
Alla luce di tutto questo - non me ne voglia il collettivo - la musica passa quasi in secondo piano, in un tripudio di sonorità urbane che hanno i loro riferimenti nel progressive più spigoloso degli Area (
“Tryptich”, “Tamburo Sei Pazzo”) o del Re Cremisi (difficile non pensarci ascoltando il sax della titletrack o le chitarre alla Robert Fripp di
“Un Incendio Visto Da Lontano”), nell’eclettismo di David Byrne (
“Onoda Hiroo”) e spesso anche nel rock nostrano colto e metropolitano (
“Blu Quasi Trasparente” mi ha ricordato a tratti i Bluvertigo degli esordi).
Un’opera riuscita e complessa, caratterizzata da suoni chirurgici e da una perfetta alchimia di gruppo - nonostante la presenza di un totale di venti musicisti ripresi in diversi studi di registrazione in tutta Italia - ma impossibile da ridurre a un numero.
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