Insomma…Potremmo dire onesto, ma il succo del discorso non cambia.
Che disco è questo degli inglesi My Dying Bride? Il settimo, il decimo, il trentesimo? Abbiamo perso il conto, soprattutto dopo le ultime confuse uscite, fra compilation, raccolte ed il live del 2002 “The Voice of the Wretched”, per fortuna il loro penultimo album da studio di due anni fa, intitolato “Songs of Darkness, Words of Light” ha risistemato le idee della band.
Risistemato fino ad un certo punto perché, nel loro universo in cui ci hanno abituato ad una vera enorme sterzata stilistica (l’orrido “34.788%... Complete”), i My Dying Bride variano di nuovo le loro coordinate stilistiche con un disco meno cupo e monolitico del suo predecessore, ma forse più scontato ed ordinario, quasi a svolgere un compitino che ormai, con la loro esperienza, sanno fare anche mentre dormono.
Questa è la loro forza, fortuna ed abilità: Aaron Stainthorpe e soci ormai hanno una sicurezza ed una stabilità che possono permettersi di scrivere un disco notevolmente superiore alla media senza il minimo sforzo, anche se dall’altra parte è un peccato perché i nostri non sempre hanno voglia di sforzarsi per tirare fuori qualcosa di nettamente sorprendente e che vada “oltre”.
Per questo e per altri dettagli, che poi alla fine spendendo 20 euro dettagli non sono più, “A Line of Deathless Kings” è un buon disco ma sicuramente non tra i migliori del lotto.
Il perché è presto detto, oltre a composizioni fatte con maestria ma di certo non traspiranti una passione esagerata, la voce di Aaron è tornata, dopo una manciata di anni, a farsi nuovamente estremamente lamentosa, mentre sarebbe stata gradita più verve, sia da un punto di vista declamativi che, eventualmente apprezzatissimo, un lieve ritorno al growling che fu in quei dischi immortali che rispondono al nome di “As the Flower Withers” e “Turn Loose the Swans”, autentici ed insuperabili capolavori dei My Dying Bride. Se poi aggiungiamo che il mixing dell’album ha posto le vocals decisamente troppo “in su” e che sono frontalmente davvero troppo presenti ecco che la frittata è fatta.
I primi a non credere pienamente in questo disco, comunque, sono gli stessi componenti della band.
Quando tu sei bello convinto che questo disco sia bellissimo, sia perfetto, sia il non plus ultra, arrivano gli ultimi 40 secondi dell’ultimo brano “The Blood, The Wine, The Roses” (piuttosto ordinario peraltro) che ti spiazzano, non entrandoci assolutamente nulla col resto del disco, con il loro tiratissimo death metal degli esordi e ti fanno capire che i My Dying Bride se volessero potrebbero molto di più, solo che non ne hanno la minima intenzione e desiderio e si accontentano di stare su binari, alti per carità, che gli permettono di rimanere nel goth senza il minimo sforzo compositivo.
Peccato, perché sarebbe un piacere poter riascoltare dei My Dying Bride nuovamente in versione death metal…