Diciamolo subito … “
il troppo stroppia”, e questo succede anche se possiedi un’ugola “educata” come quella di
Carsten Lizard Schulz (Evidence One, Domain, Dead End Heroes, Midnite Club) e le valide capacità esecutive di
Markus Pfeffer (Scarlett e Winterland).
Un celebre motto da “saggezza popolare” evidentemente sconosciuto ai
Lazarus Dream, denominazione con la quale i due, supportati dal batterista
Thomas Kullman (Sinner, Voodoo Circle, Glenn Hughes) e da un paio di altri ospiti, decidono d’inserirsi nel costipato panorama musicale contemporaneo con la loro miscela di
hard n’ heavy piuttosto tradizionale ed eccessivamente diluita.
“
Alive”, “asciugato” dagli orpelli, avrebbe potuto essere un lavoro di notevole interesse per chi apprezza “gente” del calibro di
Axel Rudi Pell, Victory, Pink Cream 69 e Jaded Heart (da aggiungere agli stessi Domain ed Evidence One) e che invece così si trascina un po’ stancamente fino ai settanta minuti di durata, alternando buone cose ad altre decisamente più trascurabili.
Il contributo suppletivo delle tastiere suonate da
Thomas Nitschke e lo sporadico intervento del flauto di
Sabrina Roth (apprezzabile, purtroppo, solo nella suggestiva “
Fleshburn”) non riescono in maniera decisiva a rendere più ammaliante un suono che conquista l’attenzione in una manciata di brani (“
Dawn of time”, "
Wings of an eagle”, la vagamente Bon Jovi-
esca "
Can't take my soul away", "
The healing echoes", "
Steam" e "
Hotel overload", una specie di miscuglio tra Van Halen e Queensryche) mentre altrove claudica a causa di strutture melodiche un po’ troppo prevedibili ("
House of cards”, la stucchevole indole
funk-eggiante di “
Listen”, “
Days of darkness and rain”) o appare assolutamente anonimo, pur nella sua irreprensibilità formale.
Peccato, a volte l’esuberanza smodata può finire per rivelarsi deleteria e non rimane pertanto che attendere i
Lazarus Dream a una prova meno dispersiva e sfibrata, in cui concentrare le migliori qualità espressive di un progetto animato da significative potenzialità.
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