Scoperti ormai due decenni fa in occasione di "Swedish Metal Triumphators Vol. 1", uno spettacolare album in condivisione con i connazionali Freternia, gli svedesi
Persuader si ripresentano sul finire del 2020 agguerriti con un nuovo album, "
Necromancy". E lo fanno a ben sei anni di distanza dal precedente "The Fiction Maze" e con un'inedita line-up, che registra, oltre alla presenza dei due membri storici, il drummer
Efraim Juntunen e il cantante
Jens Carlsson, anche i chitarristi
Emil Norberg (con loro dal 2001 e per l'occasione pure al basso) e
Fredrik Mannberg (dei Nocturnal Rites), il quale, dopo il suo contributo alla realizzazione di "
Necromancy", ha poi lasciato la band, che nel frattempo ha arruolato come bassista la new entry
Alex Friberg.
Al di là di qualche andirivieni, il cuore pulsante dei
Persuader è rimasto comunque lo stesso e come sempre batte al ritmo di quel loro caratteristico Power Metal "vagamente" derivativo dai Blind Guardian, cui non hanno mai fatto mancare un marcato approccio Thrash e qualche accenno al limite del Death e del Black Metal. Ed è proprio in questo frangente che i
Persuader non riescono a replicare del tutto gli eccellenti risultati del passato, visto che il blend tra passaggi melodici e corali con quelli più estremi non sempre scorre fluido e armonico ma appare forzato, soprattutto andando a riguardare, ad esempio, a quanto hanno saputo esprimere nel corso di "Enter Reality" (dallo stupendo "When Eden Burns").
Dopo una breve introduzione, "
The Curse Unbound" ci prende subito alla gola: frontale e aggressiva, nelle ritmiche e nel cantato di
Jens Carlsson, che appare però un po' in difficoltà quando deve salire in alto (una sensazione che serpeggerà per tutto l'album), ma che nelle altre tonalità regge tranquillamente il confronto con quello che resta il suo principale punto di riferimento, Hansi Kürsch. Detto che nella seguente "
Scars" a venirmi in mente sono i danesi Manticora, è innegabile come siano soprattutto i Blind Guardian a venire tirati in ballo, che sia nelle thrasheggianti "
Raise the Dead" e "
Reign of Darkness" (due vere mazzate soniche, pur sempre con interessanti variazioni sul tema) oppure nelle cangianti ed articolate "
Gateways" e la conclusiva "
The Infernal Fires", con quest'ultima che raccoglie su di sé arpeggi e momenti acustici ed epici, cui fanno da contraltare brucianti accelerazioni e persino sconfinamenti nel Death Metal. E' evidente la volontà di spaziare, e un'altra costante dei brani, assieme all'energia che ne scaturisce, è rappresentata dal largo impiego di soluzioni corali e da quegli incroci vorticosi creati dai due chitarristi, i quali anche quando c'è da lavorare di cesello non si tirano mai indietro.
Cinque album in vent’anni e ogni volta con un'etichetta diversa, uno scenario che rende bene l'idea delle difficoltà che la formazione svedese ha dovuto affrontare nella propria carriera. Eppure sono sempre qui tra noi e - seppur con un marcato senso di dejà vu - con ottimi risultati.
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