Secondo album in studio per i modenesi
Blue Hour Ghosts, intitolato
Due, disco caratterizzato da un sound che, viaggiando nel web nel tentativo di reperire notizie sulla band, ho sentito definire nei modi più disparati: modern-prog, alternative, gothic, e in tanti altri ancora, ma in realtà può essere riconducibile ad un semplicissimo melodic metal con qualche venatura progressive e hard rock.
Lo stile dei nostri infatti, si basa principalmente su una cura, al limite del maniacale, delle composizioni melodiche, che rimangono le indiscusse protagoniste di
Due, in tutte le sue tracce ed il cui scopo è probabilmente quello di mettere in evidenza le emozioni scaturite dalla loro musica, dunque i
Blue Hour Ghosts, battono sul tasto dell’introspezione per catturare l’attenzione e colpire l’ascoltatore dritto al cuore, obiettivo raggiunto?
Solo a tratti a parer mio.
Non me ne vogliano questi simpatici ragazzi emiliani, che comunque suonano e compongono con passione, lo si vede e lo si sente e gli va giustamente riconosciuto ma, la spasmodica ricerca e cura della melodia, per lo meno in quest’ultimo disco (visto che l'esordio da quel poco che ho ascoltato mi è sembrato migliore), è al limite dell’ossessione, la musicalità delle composizioni sembra essere il punto focale attorno a cui ruota tutto, mettendo il resto in secondo piano, ne consegue una notevole semplificazione del sound che è indubbiamente elegante, ma mai veramente incisivo, dall'andamento eccessivamente regolare e troppo morbido, poiché per la maggior parte manca di arrangiamenti e assoli veramente convincenti (parliamo pur sempre di metal!).
E cosi, dopo la buona opener
Walking Backwards, che francamente lasciava presagire il meglio, si incappa in una serie di pezzi che obiettivamente non lasciano il segno, come la successiva
On Black Clouds, le piatte
Damn Wrong e
Fearless o le conclusive
Disheartened e
Involved/Bored, tutte canzoni “né carne, né pesce”, musicalmente orecchiabili, ma poco incisive e caratterizzate da una struttura troppo uniforme.
Detto questo, ad onor del vero, qualche raggio di sole comunque c’è: oltre alla già citata traccia iniziale, brani come l’inquieta
Dead In August, dominata da una tensione crescente di fondo o ancora la multiforme
Shine sono canzoni che si fanno apprezzare di più a livello qualitativo. Ma l’apice del disco è rappresentato dalla rocciosa
Lower The Wires, e non è certo un fatto accidentale che il pezzo migliore di
Due coincida con il momento in cui i
BHG macinano un paio di riffs convincenti, grazie alle chitarre di
Diego Angeli e
Francesco Poggi, enfatizzati dalle atmosfere create dalle tastiere di
Simone Pedrazzi. Non che in questi ultimi brani citati la band stravolga il proprio sound, la cura della melodia è sempre un punto fermo ma, la sua presenza è meno ingombrante e riesce a convivere armonicamente con la sostanza, che finalmente fa la sua comparsa.
Insomma, a conti fatti
Due è un disco ancora un pò acerbo, ma con degli spunti interessanti, partorito da dei musicisti che hanno indubbiamente potenzialità e buone idee, che però probabilmente andrebbero sviluppate meglio, magari irrobustendo la sezione ritmica e affinando la tecnica; non è un caso che gli episodi migliori di questo lavoro si verificano proprio quando questo avviene, riuscendo a dare anche quel tocco di imprevedibilità all’intero album che, senza questi accorgimenti, rischierebbe di soffocare sotto il peso eccessivo della regolarità delle composizioni melodiche.