Perchè gli
Inglorious non sono ancora "sulla bocca di tutti"? Perché accendendo radio o televisione non siamo felicemente “tormentati” da qualcuno dei loro pezzi? Perché parlando di
hard-rock “moderno”, non vengono citati come fulgido esempio d’ispirazione artistica, capace di celebrare Led Zeppelin, Whitesnake, Black Sabbath e Soundgarden in maniera edificante e straordinariamente produttiva?
Tanti interrogativi e una sola certezza … con “
We will ride” ignorare la grandezza della formazione inglese equivarrebbe a commettere un enorme “crimine” nei confronti della musica
rock, tanto più se dietro a tale nefandezza ci fosse solo una mera questione di
trend.
Con una
line-up profondamente rinnovata, costruita attorno al
vocalist extraordinaire Nathan James e al batterista
Phil Beaver, gli
Inglorious sembrano aver trovato addirittura nuovi stimoli, consolidando al contempo le migliori peculiarità espressive già ostentate in passato, sfornando un albo di rara tensione emotiva, eretta su canoni sonori consolidati e non per questo privi di personalità.
I nuovi chitarristi
Danny Dela Cruz e
Dan Stevens, e la
new entry al basso
Vinnie Colla s’inseriscono perfettamente in sostrato esecutivo e compositivo ormai pienamente maturo, a cui tuttavia contribuiscono non come semplici comprimari.
Ciò non evita di spendere ancora una volta speciali parole di elogio per la voce di uno dei cantanti più strabilianti della sua generazione, in grado di destreggiarsi con uguale abilità in languidezze
blues e in esplosioni fonatorie, concentrando su di sé l’attenzione ed evitando contemporaneamente d’incorrere in sterili autoindulgenze, ricordando l’approccio di quel
Chris Cornell di cui rappresenta uno dei migliori epigoni.
Scendendo nel dettaglio del programma, è veramente difficile trovare momenti poco incisivi o vagamente trascurabili: “
She won't let you go” (scritta da
James e
Dela Cruz ancor prima dell’ingresso ufficiale di quest’ultimo nella
band) irrompe nei sensi metabolizzando meravigliosamente gli insegnamenti di Whitesnake e Aerosmith, seguita da una “
Messiah” che ridicolizza tanti
Led-Clones sparsi sul globo terracqueo.
Il pastoso
feeling bluesy di “
Medusa” appare perfetto per essere assimilato assieme a uno
shot di
Southern Comfort, mentre se la commozione non vi assale durante l’ascolto di “
Eye of the storm” significa che probabilmente siete già passati a miglior vita e nessuno vi ha avvertito dell’evento.
Si prosegue con le intense pulsazioni
serpentesche di “
Cruel intentions”, con un’avvolgente “
My misery” che incastona due icone del calibro di Bad Company e Soungarden e con una “
Do you like it” che i
fans della migliore tradizione del “rock duro” britannico non potranno che apprezzare.
Giunti a “
He will provide”, sono le maestose vestigia dei
Sabs a stagliarsi all’orizzonte, diradate poi nell’afflato psichedelico di “
We will meet again” e della
title-track posta a sigillo dell’opera, tra le quali si pone l’elettricità soffusa di “
God of war”, a completamento una suggestione d’ascolto emotivamente piena e assolutamente appagante.
Continuiamo pure a esaltare il ruolo di continuatori della specie di Alter Bridge, Shinedown e Black Stone Cherry, o a discutere se spetti ai Greta Van Fleet o ai Dirty Honey inserirsi di diritto in tale nobile
élite, ma non dimentichiamoci degli
Inglorious, assoluti protagonisti della scena di riferimento, arrivati con “
We will ride” a una tappa fondamentale nella loro brillante carriera.