Difficile stabilire il momento “preciso” in cui, nei confronti dei
supergruppi, si è passati dalla “curiosità spasmodica” alla “scettica indifferenza”, ma di certo sarebbe un peccato accogliere i
Joel Hoekstra's 13, fieri appartenenti alla suddetta categoria di virtuosi, con scarso interesse e approccio superficiale.
Prima di tutto perché già il debutto, “
Dying to live”, era ben lontano da un’ostentazione di destrezze singole, e poi perché questo secondo “
Running games” supera decisamente il suo predecessore in fatto di coagulazione espressiva e di maturazione compositiva.
Certo, per apprezzarlo appieno bisogna ineluttabilmente essere devoti al verbo di Whitesnake, Rainbow e Dio, accorgendosi ben presto che da queste parti la passione, oltre al talento e alla perizia tecnica, rende l’intera questione qualcosa di certamente diverso da una semplice operazione di nostalgica emulazione.
Joel Hoekstra,
Russell Allen,
Vinny Appice,
Tony Franklin e
Derek Sherinian appaiono oggi come un manipolo di eccezionali
performers accomunati da una visione artistica condivisa, in cui cultura, tecnica e
feeling si compenetrano in maniera armonica ed equilibrata.
Ovviamente poter contare su qualità individuali così spiccate (e qui vale la pena ricordare anche la presenza di
Jeff Scott Soto, relegato,
oibò, alle
backing vocals) è un importante “valore aggiunto” e tuttavia a sorprendere è l’affiatamento e la naturalezza con cui i nostri si approcciano a una materia sonora in cui il pericolo della
routine è veramente elevatissimo.
Il fraseggio cromato di “
Finish line” dispone favorevolmente all’ascolto e quando sono la poderosa linea vocale e il
refrain contagioso a conquistare il proscenio, l’eventualità di un orientamento fastidiosamente derivativo si dilegua all'istante, lasciando il posto a una piacevole e confortevole sensazione di “bozzolo” sensoriale.
I
fans dell’
Arcobaleno adoreranno le successive “
I’m gonna lose it” e “
Hard to say goodbye”, pilotate da un
Allen posseduto dallo “spirito” del migliore
Joe Lynn Turner e da un
Hoekstra che mette a frutto in maniera costruttiva la grande lezione
Blackmore-iana.
A "
How do you” è affidato il compito di ricordare l’importanza di una favolosa ballata
bluesy nell’economia di un
album di
hard-rock, mentre la febbrile intensità di “
Heart attack” rievoca con gusto e innata attitudine l’immarcescibile eredità dei Whitesnake, e ancor di più piace il trattamento delle “radici” del genere applicato a “
Fantasy”, animata da un magnetico tocco esotico.
L’ottima “
Lonely days” rivela l’animo maggiormente “adulto” di una
band che in “
Reach the sky” e “C
ried enough for you” asseconda il suo temperamento enfatico ed evocativo, per poi lambire territori
power-prog in “
Take what’s mine” e concludere il suo secondo parto discografico con una
title-track di notevole suggestione, intrisa di un’elegiaca atmosfera acustica.
I
Joel Hoekstra's 13 diventano così una priorità per tutti quelli che amano i suoni “classici” del
rock e credono che “l’anima” e l’ispirazione, anche in una comitiva di straordinari professionisti della musica, possano ancora fare la differenza.