Ok … il gruppo è scandinavo, i suoi principali riferimenti artistici sono Free, Cream, Lynyrd Skynyrd, Jefferson Airplane, Fleetwood Mac e B.O.C. e la cantante che lo pilota ha tra i suoi modelli
Janis Joplin,
Grace Slick,
Sonja Kristina e
Stevie Nicks, ma non fate l’errore di inserire gli
Heavy Feather tra i pavidi seguaci di un
trend piuttosto florido e diffuso, trainato da “gente” come Blues Pills, Lucifer e Pristine.
Io stesso, lo ammetto, viste le premesse, mi stavo preparando a stigmatizzare il lavoro dell’ennesimo clone dei migliori interpreti contemporanei del
retro-rock, quando l’ascolto di “
Mountain of sugar” mi ha ricacciato in gola tutta “l’animosità” con cui ero pronto ad accogliere il secondo albo dei nostri svedesi.
La verità è che, pur ovviamente non proponendo rivoluzioni,
Lisa Lystam (anche nei Siena Root),
Matte Gustavsson (In Solitude),
Morgan Korsmoe e
Ola Göransson rivelano capacità compositive e interpretative appassionanti, che fanno del disco uno dei migliori del momento nel suo specifico ambito di competenza.
Lo testimonia un programma che manipola con tocco felice e spiccata ispirazione
southern rock,
soul e
blues, aggiungendo poi un pizzico di psichedelia all’emozionante impasto sonico, impossibile da criticare soltanto perché in realtà non dice “nulla di nuovo”.
La tensione espressiva ed esecutiva garantita dalla
band, con in testa la vocalità intensa della
Lystam e la chitarra fremente di
Gustavsson, sostiene splendidamente trentasette minuti di puro sollazzo emotivo, inaugurato da una vibrante “celebrazione” Humble Pie-
esca denominata (guarda un po’ …) “
30 days”.
Il secondo tassello dell’opera, titolo “
Bright in my mind”, enfatizza le grandi capacità tecnico-interpretative della
singer, abilissima a teletrasportare l’astante in un
happening tra
sixties e
seventies, dove sul palco si consuma una
jam session tra gli
Airplanes, i Big Brother and the Holding Company e gli And di
Johnny Winter.
L’ammaliante
groove sudista di “
Love will come easy” fa salire ulteriormente la temperatura, che si mantiene alta nella pulsante
title-track dell’albo (suggestivi i
break di armonica) e nella successiva “
Too many times”, in cui fa capolino il “campanaccio” più famoso del
rock n’ roll.
Le atmosfere liquide e amniotiche di “
Let it shine” (una specie di
Tori Amos dispersa nel cosmo) svelano un altro lato della ricca personalità degli
Heavy Feather, intrisa di scalciante
soul n’ blues in “
Come we can go” e di
country n’ southern nella successiva “
Sometimes I feel”, in cui il microfono passa a una laringe maschile, presumibilmente appartenente al bravo
Gustavsson.
“
Lovely lovely lovely” (ed ecco di nuovo il mitico
cowbell!) avvolge, scalpita e ipnotizza, mentre a “
Rubble and debris” è affidato il compito di aumentare il coefficiente elettrico della questione (colorandola di screziature
Poprora) e a “
Asking in need” quello di concludere con un volo al tempo stesso sensuale e celestiale un viaggio nella
Storia del Rock capace di sedurre indistintamente chi certi suoni li frequenta da tempo e chi invece li conosce principalmente per il loro attuale ritorno in auge.
Un’operazione di
revival attuata con classe e una certa freschezza, insomma, che dimostra come una grande eredità possa essere messa a frutto con la giusta attitudine e non andare sprecata.