Nel 1991 feci moltissima fatica a reperire la colonna sonora di “
If looks could kill“ (titolo italiano “
Un agente segreto al liceo”, una “commediola” americana sul tema delle
spy stories), e se i miei sforzi nei confronti di un
ellepi di certo non fondamentale si rivelarono tanto ostinati e irriducibili fu solo perché in scaletta era presente un pezzo di
Robin McAuley (“
Teach me how to dream”), reduce dalla felice esperienza con il McAuley Schenker Group.
Un piccolo aneddoto che ha il solo scopo di testimoniare la mia fedele ammirazione per il
vocalist irlandese, conosciuto grazie a “
Samurai” dei Grand Prix e da quel momento diventato uno dei miei (tanti) eroi personali.
Dopo l’eccellente lavoro dei Black Swan, una
superband che (nel caso vi fosse colpevolmente sfuggita) vi consiglio di recuperare senza pregiudizi, ritrovare il mitico
Robin impegnato nel suo secondo albo solista non può dunque che farmi salire la “temperatura” dell’aspettativa, tanto più che ad accompagnarlo in quest’avventura c’è una formazione completamente tricolore, con in testa il mai troppo incensato
Alessandro Del Vecchio.
E allora cominciamo l’analisi di “
Standing on the edge” affermando con convinzione che non sarà facile trovare "in giro" un cantante altrettanto intenso e motivato, una valutazione che acquisisce ancora maggior valore considerando che il nostro ha superato le sessantotto primavere.
Sotto il profilo squisitamente musicale, il disco alterna con innato buongusto e forza espressiva
hard-rock e
AOR, percorrendo le battute piste della “tradizione” con palpitante efficacia, tale da mettere in difficoltà tanti “vecchi & nuovi” frequentatori del settore.
Nulla che possa far “saltare sulla sedia”, in realtà, ma qualora vi piacciano le emozioni “familiari” eppure sempre piuttosto “forti”, trasmesse con padronanza, vitalità e dosi considerevoli di
feeling, l’opera in questione possiede tutte le peculiarità necessarie a soddisfare le vostre esigenze di
rockofili.
La
pomposa apertura denominata “
Thy will be done” è una maniera splendida per validare le capacità interpretative di
McAuley, al servizio di una suggestiva costruzione armonica che diventa pura arte di derivazione Dokken-
iana nella
title-track e s’illanguidisce senza soverchie stucchevolezze nella successiva
“Late december”, dall’andamento vellutato e notturno.
“
Do you remember”,
“Say goodbye” e la deliziosa "
Wanna take a ride” proseguono nel favorire l’imperioso contagio emotivo attraverso l’immarcescibile attrattiva dei suoni
adulti (e qui ricordiamo pure la collaborazione del nostro con i Survivor), mentre “
Chosen few” è un buon esempio di “rock duro” privo di eccessive “pretese” e la sinfonica ”
Run away” sconta qualche manierismo di troppo.
Andiamo meglio con la
rootsy “
Supposed to do now” (a cui ha contribuito l’ex-Heart
Howard Leese) e tuttavia sono “
Like a ghost” e “
Running out of time” a riservare le scosse sensoriali più vibranti: la prima, scritta con
Phil Lanzon (di fama Grand Prix e Uriah Heep), è un
hard-prog di classe, e la seconda è un ruggente
heavy rock dal notevole impatto, rappresentando la perfetta chiusura di un programma che non deluderà i cultori del genere e gli estimatori di questo invidiabile veterano della fonazione modulata.