In questo 2021, la
Karisma – Dark Essence ha avuto la bella idea di ristampare l’ultimo album in studio dei
Ruphus, band di un certo peso degli anni ’70 proveniente dalla Norvegia.
I
Ruphus, insieme ad un altro manipolo di band (principalmente i
Kaipa dalla Svezia e i
Focus dall’Olanda) hanno rappresentato il nord Europa nella scena Progressive mondiale, insieme al Krautrock in Germania.
Gruppi certamente rispettati dalla critica, conosciuti specialmente nei rispettivi paesi d’origine e limitrofi, mentre nel resto del globo parliamo spesso di “cult”.
Oggi parlando dei
Ruphus non possiamo fare a meno ricordare come la band di Oslo ebbe una particolare evoluzione: i primi due album smaccatamente Progressive Rock, per poi dal terzo andare a parare su coordinate stilistiche Jazz Rock e Fusion, andando quindi ad avere un percorso parallelo per certi versi simile a quello dei più noti
Soft Machine. Nel caso della band norvegese la svolta diede loro una certa personalità, scrollandosi di dosso l’influenza prepotente e importante di band come gli
Yes.
Dopo tre album di Fusion/Jazz Rock, nel 1979 arriverà questo
“Manmade” che rappresenterà il capitolo finale di questo gruppo.
Dopo tanto parlare della band e della scena è ora però di scoprire come suona questo disco e come questa operazione di ristampa è stata fatta.
Dunque, parto subito con il dire che
“Manmade” è una piccola perla che merita di essere riscoperta e che in un mare magnum di ristampe inutili, fa piacere che si cerchi anche di far riscoprire band medio-piccole e non solo i soliti noti (abbiamo ormai perso il conto delle ristampe di
ELP,
Genesis,
Banco ecc).
Il Jazz Rock qui presente è molto ingentilito, non presenta duri riffs di chitarra e per l’epoca presenta un sound moderno che lo fa avvicinare alla Fusion.
In queste canzoni i veri protagonisti sono senza il basso e le tastiere che danno una certa personalità, tra fraseggi frizzantini, ritmiche spumeggianti e dei tratti elettro-funk.
Anche i virtuosismi dei singoli strumenti non è mai esagerato e vanno a braccetto con l’eleganza di certo Jazz, questo anche perché la precedente esperienza Progressive non è stata dimenticata e accantonata ma incanalata in certe parti dal gusto favolistico con quel sapore particolarmente etereo e sognante, questo anche per via della voce femminile, mentre in altri tratti la chitarra e le percussioni hanno richiamano a certe atmosfere latine e tropicali, ricordando un certo
Santana, tutto ciò viene esaltato da una registrazione da urlo.
Da come avete letto i
Rushus eranno un gruppo che andava in controtendenza rispetto a molto Jazz Rock/Fusion dell'epoca: rispetto alla
Mahavishnu Orchestra, ai
Brand X, ai già citati
Soft Machine o a
Frank Zappa, i norvegesi sono decisamente più assimilabili, non disdegnano melodie accattivanti e radiofoniche, un minutaggio per la media del genere più contenuto e una forma canzone più standard rispetto alle infuocate e anarchiche jam sessions del genere.
Questo ha anche un altro lato della medaglia: tutta questa melodia a lungo andare con gli ascolti risulta essere stucchevole e qualche variazione di tono, con parti più o meno dure, avrebbero sicuramente giovato.
Concludo dicendo che è stata particolarmente strana la scelta di non aver incluso le tre canzoni bonus presenti nella ristampa del 2009: ristampa quindi positiva, ma con qualche riserva alla quale viene rosicchiata mezzo punto.
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