“
Alla ricerca del tempo perduto” … questo potrebbe essere il sottotitolo di “
Itch you can’t scratch”, terzo albo dei
Midnite City.
Niente paura, non ci addentreremo in complicate analisi della narrativa di
Marcel Proust e tale connotazione, molto diffusa peraltro, non comporta nemmeno un’invalidante disapprovazione e vuole semplicemente sottolineare come i nostri esprimano nella loro musica un’impressionante
nostalgia per la scena
hair-metal statunitense degli anni ottanta, trasformando tale impulso così radicato in una forma credibile ed efficace di “riproduzione”.
Sarà per l’esperienza dei protagonisti (in particolare quella di
Rob Wylde con i Tigertailz e del
drummer Pete Newdeck non numerose valide formazioni della scena di riferimento), ma in effetti, come anticipato, l’operazione
amarcord funziona piuttosto bene, a patto che non si sia infastiditi dalla continua rievocazione di capisaldi del settore del calibro di Bon Jovi, Danger Danger, Motley Crue, Poison e Winger.
Gli
anthems si alternano sagacemente ai momenti più meditati e (virilmente) romantici ed ecco che se “
Crawlin’ in the dirt” e la sfacciatamente Poison-
esca "
Atomic” sollecitano la componente viziosa e sfrenata del
rock n’ roll, “
Fire inside” addolcisce i toni, dimostrando che nel petto di questi licenziosi
rockers batte un cuore avido di sentimento.
“
Darkest before the dawn” e soprattutto “
I don’t need another heartache” (provate a resistere al suo ritornello se ci riuscite …) puntano nuovamente su sonorità maggiormente ammiccanti e adescanti, e dopo l’ardore vagamente Aerosmith-
iano di “
Blame it on your lovin’”, nell’ombrosa ballata “
They only come out at night” i Midnite City operano una felice sintesi tra i Def Leppard e l’Alice Cooper di “
Trash” e "
Hey stoopid".
Si continua con la trascurabile “
Chance of a lifetime”, risollevata negli effetti emotivi dalla successiva “
If it’s over”, uno
slow di marca Bon Jovi abbastanza ben congeniato, e da “
Fall to pieces”, che conclude il godibile “viaggio nei ricordi” sfruttando un’altra melodia irretente e sensibile.
“
Itch you can’t scratch” è un disco capace di far rivivere un’epoca straordinaria per certi suoni e per un determinato modo d’intendere, almeno nell’immaginario collettivo, l’intera esistenza, infarcendola di eccessi, divertimento e spensieratezza … una “illusione” che, magari accantonandone gli aspetti più “distruttivi”, è sempre bello poter vivere, grazie ad un’incisiva e frizzante colonna sonora.
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