Vengono da Aalborg, in Danimarca, si chiamano
Bogwife (dal nome di una creatura mitologica del
folklore scandinavo che vive nelle paludi) e propongono una densa mistura sonora fatta di
doom,
sludge,
stoner e
psichedelia, edificata sulla pesantezza dei
riff, la possanza delle ritmiche e sul senso di astrazione irradiato dall’iridescente luminosità lisergica.
Nulla di particolarmente “nuovo”, dunque, eppure nelle grevi dilatazioni soniche di “
A passage divine” (seconda fatica discografica del gruppo, dopo l’esordio “
Halls of rebirth”) rilevo i prodromi di un “carattere” espressivo in grado di distinguere il quartetto nordico dalla massa dei frequentatori del genere.
Difficile indicare in maniera precisa gli elementi che mi hanno portato a tale conclusione … probabilmente l’aspetto principale è individuabile nella qualità melodica delle composizioni, in grado di “alleggerire” il tipico schematismo stilistico che contraddistingue il settore e a cui i
Bogwife si affidano comunque con innata dedizione.
Insomma, trentotto minuti di ritmi orbitali, distorsioni liquide e vibrazioni cavernose, il tutto coordinato dalle sofferte litanie vocali di
Mikkel Munk Iversen, da consumare senza interruzioni e per cui ha poco senso tentare di affannarsi in descrizioni singole (anche se ammetto di avere una speciale predilezione per la viscosa “
Restoration” e per il lungo epilogo “
Descent”), laddove imponenti dosi di
groove e uno stordente
flavour ipnotico rappresentano il
leitmotiv dell’intera opera.
Pentagram, Black Sabbath, Trouble, Electric Wizard, YOB, Orange Goblin … se vi piacciono queste
band quasi certamente apprezzerete anche i
Bogwife, ottimi epigoni di un suono tanto ossessivo e narcotico quanto magnetico e visionario.
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