Allora … vediamo un po’ … sezione ritmica greve e cupa,
riffone pernicioso, cantato solenne, stacco, coro, magari una digressione acustica, altro coro, dissolvenza finale.
Detto così, sembra quasi facile costruire una “perfetta” canzone
epic-power-doom, ma sappiamo bene che non è sufficiente assemblare gli ingredienti fondamentali di una ricetta sonora ampiamente consolidata per ottenere risultati edificanti.
Tra i tanti allievi di Black Sabbath, Rainbow e Judas Priest, gli svedesi si sono sempre distinti per la capacità di intridere di
pathos tangibile le loro composizioni, a partire dai favolosi Candlemass e poi passando per “gente” come Tad Morose, Veni Domine, Grand Magus e Sorcerer.
All’elenco di tali efficaci e ispirati epigoni è senz’altro necessario aggiungere il nome dei
Memory Garden, in “giro” dal 1992 e tornati a diffondere la loro drammatica miscela sonica a distanza di otto anni dal precedente "
Doomain".
Ebbene, “
1349”,
concept album suscitato dal flagello pandemico della
Peste Nera, dimostra ancora una volta l’abilità di questa
band nell’impossessarsi di un canovaccio espressivo ad alto rischio di “monotonia” e renderlo intenso e coinvolgente, realmente “evocativo”, un aggettivo troppo spesso utilizzato con esagerata leggerezza.
Ovviamente, cercare l’innovazione e le stimmate della creatività
tout court in tali contesti appare assolutamente utopico, ma è sufficiente immergersi nel clima tirannico e trionfale di “
Shallow waters” per comprendere quanto queste sonorità, nelle “mani giuste,” siano ancora in grado di conquistare l’astante appassionato.
Da qui in avanti, una serie di avvincenti evocazioni musicali dai toni plumbei, tragici e sinistri, melodicamente ammalianti e mai eccessivamente banali, che nel salmo
folkish-doom "
Rivers run black”, nella cangiante “
The flagellants” e nell’ancestrale “
The messenger”, confermano quanto si possa ancora sfuggire lo stereotipo deleterio, nonostante il rigore dei temi proposti.
Segnalazione “speciale” infine per l’eccellente “
The empiric” (ospite il
vocalist dei Wolf
Niklas Stålvind), una
title-track davvero suggestiva e la maliosa melodia concessa alla conclusiva
“Blood moon”, sigillo in sontuosa ceralacca di un programma dall’elevato valore qualitativo complessivo.
I
Memory Garden ostentano con fierezza l’appartenenza alla scena di riferimento (Candlemass in primis, ma lasciatemi dire che “
1349” è meglio, per esempio, di quel "
Chapter VI" definito un “classico sottovalutato” nella scheda di presentazione dell’opera ...) e grazie alla spiccata maturità espressiva non c’è dubbio che si collochino di diritto tra i migliori interpreti del genere.