Diciamolo subito … “
Inspirations”, primo parto discografico dei
Barnabas Sky,
supergruppo pilotato dal compositore e multi-strumentista
Markus Pfeffer (Lazarus Dream, Winterland, ex-Scarlett), non è un disco organico e stilisticamente omogeneo, bensì una raccolta di brani piuttosto diversi tra loro, sapientemente adattati alle caratteristiche interpretative dei numerosi cantanti che hanno preso parte al progetto.
Una volta chiarito quest’aspetto, non è difficile rilevare le buone qualità e la duttilità di scrittura ed esecuzione dell’artista tedesco, capace di spaziare dall’
heavy “classico” all’
hard melodico con una certa disinvoltura esaltando le peculiarità espressive di prestigiosi e apprezzati rappresentanti della fonazione modulata.
E’ ovvio, a questo punto, finire per avvicinarsi all’albo sulla base delle proprie preferenze canore, e se personalmente è stata soprattutto la presenza di
Danny Vaughn (Tyketto),
Danny Martinez Jr. (CITA, Guild Of Ages) e
Jesse Damon (Silent Rage) ad attirare il mio interesse primario, sono certo che un’ampia fetta di
rockofili concentrerà maggiormente le sue attenzioni sulle prestazioni di
Zak Stevens (Savatage),
Rob Rock (Impellitteri,
Axel Rudi Pell, M.A.R.S. …) e
Steve Grimmett (Grim Reaper, Lionsheart, …), peraltro tutti meritevoli di altrettanta considerazione in virtù di
curricula vitae di grande valore.
Partiamo, dunque, innanzi tutto, esaminando i miei principali poli d’attrazione, evidenziando come “
Legends rise” e “
Say farewell to darker days” siano due eccellenti “palestre” melodiche atte a sublimare la nota passionalità timbrica di
Vaughn, così come “
In my mind” e la solare “
Breathe again”, giovandosi della vellutata ugola di
Danny Martinez Jr. riescono ad apparire oltremodo godibili, pur senza lasciare “a bocca aperta” l’astante.
Analoga impressione la riservano la gradevole ballata “
Till the end of time” e la pulsante “
Youngblood” a cui
Damon (supportato dai cori del suo leggendario mentore
Paul Sabu) conferisce una fervida e avvolgente pressione emotiva.
“
What lies beneath” e “
The alkonost”, affidate all’ugola possente di
Stevens, e “
Yesterday’s gone”, con un roccioso
Rob Rock dietro al microfono, rivelano il lato maggiormente
metallico di
Pfeffer, abbastanza a suo agio anche in climi musicali antracitici ed enfatici, mentre desta qualche precipua perplessità “
Never enough”, poco incisiva anche a causa di una prova non esattamente memorabile di
Grimmett.
A conferma del valore e della cultura del
mastermind della
band segnaliamo, poi, il sentito omaggio “
Timm’s theme”, strumentale ispirato dall’arte indimenticabile (e, invece, troppo spesso non adeguatamente ricordata …) del compianto
Gary Moore.
Una non molesta e tuttavia piuttosto superflua versione pianistica della già citata “
Till the end of time” conclude il programma di un’opera complessivamente intrigante, magari un po’ “dispersiva” e che quindi suggerisce ai
Barnabas Sky di rendere maggiormente coerenti i suoi futuri passi discografici, anche a costo di ridurre la schiera degli ospiti vocali e, di conseguenza, il potenziale bacino d’utenza.