“
First reaction: shock”.
La citazione del nostro ex Presidente del Consiglio
Matteo Renzi è d’obbligo, visto che da anni il primo ascolto di un
album non mi lasciava così genuinamente sgomento. Talmente sgomento che ho sentito l’esigenza, pressoché inedita, di esternare i miei sentimenti: ne ho parlato con mia moglie, ho scritto al Sommo
Graz e, per sovrappiù, anche alla
chat di
Whatsapp del gruppo del fantacalcio.
Tutto questo per dire che no, non mi aspettavo un disco
così pop.
Lo so, lo so: già da anni i
Ghost non potevano certo esser definiti un baluardo posto a difesa dei sacri canoni dell’
heavy metal, anzi.
Cionondimeno, le coordinate stilistiche di “
Impera” risiedono davvero “altrove” rispetto alla nostra musica prediletta: il
feeling dark / occulto si è pressoché dissipato, delle atmosfere luciferine non si scorge traccia, così come non paiono pervenuti
riff dotati di un
modicum di cattiveria.
Ve ne potrete accorgere ben presto anche voi: dopo un breve, malinconico
intro di stampo chitarristico prorompe “
Kaisarion”, con quel destabilizzante acuto, quelle melodie talmente solari e positive… si potrebbe pensare quasi ad un
divertissement, ad un episodio semi-isolato posto provocatoriamente in apertura.
Macché: bastano le prime note della successiva “
Spillways”, sorta di “
Hold the Line” dei
Toto in salsa
Ghost, per farci capire che l’andazzo è proprio quello.
Sui primi due singoli la maggior parte di voi avrà già maturato un’opinione.
“
Call Me Little Sunshine”, alle mie orecchie, continua a suonare come la
cover di una
b-side dei
Metallica era
Load. Nemmeno “
Hunter’s Moon” mi aveva entusiasmato di primo acchito; d’altro canto, dando una rapida scorsa alla
tracklist, le ficcanti linee vocali ed il contagioso
bridge si rivelano sufficienti a renderla una delle migliori. Più per demeriti altrui che per meriti propri, ma tant’è.
Sinora, si badi, non si discute affatto di brutte canzoni, tanto per utilizzare un termine tecnico. Il livello qualitativo medio, tuttavia, anche prescindendo dalla impalpabilità del
sound, è a mio avviso di molto inferiore rispetto alle precedenti
release dei Nostri.
Per imbattersi nelle succitate brutte canzoni, peraltro, basta avere un po’ di pazienza.
“
Watcher in the Sky” partirebbe anche benino, grazie ad un (raro)
riff dotato di sostanza; peccato perda man mano di mordente, soprattutto a causa di un
chorus totalmente insapore. Sul
web in tanti la descrivono come la vera
hit del disco, e forse il tempo darà loro ragione, ma io non riesco a vederla tale nemmeno sforzandomi.
Che dire, poi, di “
Twenties”?
Anche in questo caso, la rete tracima di elogi per un brano oltremodo coraggioso, arrangiato in modo sopraffino e con
pattern ritmici inediti per i
Ghost.
Tutto concesso, ma a mio avviso ci troviamo comunque di fronte al più classico degli esperimenti malriusciti, ancora una volta affossato da un ritornello privo di qualsivoglia spunto di interesse.
Lode al coraggio, meno ai risultati.
Su “
Darkness at the Heart of My Love”, invece, mi limito ad alzare le mani.
Zuccherosa e radiofonica a livelli che mai avrei creduto raggiungibili. Ormai da un quarto di secolo non mi si può additare di oltranzismo metallico, ma qui ci muoviamo in territori che nulla hanno a che spartire col nostro Portale. Ingiudicabile.
Giudicabile, invece, ma non necessariamente in termini positivi, la seguente “
Griftwood”, in cui i
Ghost si dilettano a scimmiottare le scorribande del compianto
Eddie Van Halen, condendo però il tutto con linee vocali e coretti leggerissimi, perfetti per chi ha voglia di niente (semi-citazione da denuncia, lo so, ma ci stava troppo bene).
Perlomeno si chiude in crescendo con la solenne “
Respite on the Spital Fields”, che mette in mostra (finalmente!) un
chorus vincente e ottime melodie di chitarra.
Peccato che i buoi siano già scappati da quel dì.
Vi posso assicurare che numerosi, tribolati ascolti sono seguiti a quello iniziale. Passato lo
shock, tuttavia, è rimasta inalterata la mia opinione: “
Impera” può serenamente venir rubricato come il peggior
full length mai immesso sul mercato dai
Ghost.
Ciò che è peggio,
Forge sembra aver imboccato a piè sospinto un percorso artistico che non fa presagire nulla di buono per il futuro. Certo, un ritorno in carreggiata è sempre possibile, ed il talento compositivo di
Tobias non può certo essere evaporato di colpo.
Chi vivrà vedrà; ad oggi, però, ci troviamo a fare i conti con un album che senz’altro divide, ma che ben difficilmente può comandare.
Peccato.