In questo Cd dei fiorentini Biocevice Cult ci sono talmente tante influenze musicali diverse, che diventa davvero arduo poter spiegare a parole, in un modo che possa risultare veramente esaustivo, il suo contenuto.
Ci proverò lo stesso iniziando col tentare d’individuare proprio le tante suggestioni che il quintetto cerca di far convivere nei dieci brani che compongono il suo “Time for doubts?”.
Il primo influsso che si manifesta è quello della dark-wave; le stigmate di quei suoni tesi, solenni ed evocativi, tanto torbidi ed inquietanti, rivivono in maniera piuttosto evidente nella bella “'70”, ma affiorano in modo più “ermetico” anche in talune altre situazioni del Cd, mescolate ed occultate insieme con uno spiccato gusto per le commistioni di natura etnica, con le atmosfere liquide di un certo tipo di hard-rock moderno, con una chiara ispirazione di marca death, soprattutto nella sua versione combinata con il doom e con il thrash, e ancora con un pizzico di sperimentalismo.
Insomma, un bel calderone dove potrete incontrare le visioni lugubri e misteriose dei The Sisters Of Mercy e Fields Of The Nephilim, rifrazioni della sregolatezza acida dei Queens Of Stone Age, le angosce esistenziali di Anathema e Paradise Lost (periodo pre-elettronico), le liturgie sciamaniche di Danzig, il livore di Pantera e Sepultura, tanto per fare qualche nome.
L’operazione dimostra buona personalità, ma credo sia necessaria una smussatura di quegli “spigoli” che rendono il prodotto leggermente dispersivo, un incremento nel coordinamento sonoro di tutti questi influssi che al momento sembrano un po’ dissociati, anche a causa di una registrazione impastata, assolutamente non all’altezza delle velleità artistiche esibite dai nostri.
Oltre alla già citata opener, ritengo che i pezzi meglio riusciti dell’albo siano la pulsante e volitiva “La faim”, le oscillazioni mortifere di “Yeworkwoha” (con tanto di cornamusa), l’andamento obliquo e violento di “Lost”, tra psichedelia, inquietudine e sfregi di malvagità, l’eccellente “A day ...” che mescola stoner a qualcosa mutuato dal succitato ex Misfits, per trasformarsi in una sorta di frenetica danza balcanica, o ancora la collera mutante di “Zauzeto”, che per esprimersi al meglio utilizza la lingua madre.
Gli altri brani, alcuni dei quali di grande valore a livello potenziale (penso a “Cheta”, dal clima sospeso e conturbante, con piccoli tocchi jazz e a “L'homme oblique”, con le sue suggestive divagazioni), pur manifestando considerevole interesse, avrebbero bisogno di una maggiore “messa a punto” nelle variazioni strumentali, un raccordo più efficiente nei cambiamenti di “rotta” e, come anticipato, a tutto il lavoro in generale non farebbe male un pizzico di superiore fluidità e compattezza complessiva.
I Biodevice Cult hanno scelto una strada difficile e “accidentata”, ma dimostrano di poterla affrontare senza troppe difficoltà, riuscendo ad intravedere il traguardo nonostante qualche intoppo sul percorso. Li aspettiamo alla prossima tappa, che non potrà però prescindere da una resa sonora adeguatamente equilibrata, per poterne verificare lo stato di forma.
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