Mi sto sempre più autoconvincendo della validità della mia personalissima teoria, in base alla quale, i
Seventh Wonder si sono ormai ridotti ad essere semplicemente “la band di
Tommy Karevik, il cantante dei Kamelot” e nulla più.
Ora, fermo restando che, per quanto mi riguarda, il VERO cantante dei Kamelot NON E’, E NON SARA’ MAI KAREVIK (ma questo è un mio limite, lo ammetto, e non me ne farò mai una ragione), il concetto è un altro. Ossia che, per quanto possa essere bravo il vocalist svedese (e nessuno lo mette in dubbio, sia chiaro), far passare l’equazione matematica, secondo la quale
Seventh Wonder =
Karevik, per un gruppo come quello in questione, dotato di abilità tecniche indiscusse e gusto musicale sopraffino, sia un tantino mortificante, dal punto di vista artistico.
Dite che sono troppo severo?
Può darsi, o forse parlo semplicemente con il dente avvelenato, tipico di chi riponeva grandi speranze nei confronti di questa formazione, almeno fino una decina d’anni fa.
Il preoccupante “accentramento di poteri” nelle mani del frontman oltre, ad onor del vero, ad una certa stanchezza compositiva, erano aspetti emersi prepotentemente già con il precedente “Tiara” (2018), lavoro incensato dai più, ma che fu un’autentica delusione per chi, come il sottoscritto, identificava la vena creativa dei
Seventh Wonder in dischi molto più freschi e brillanti, quali “Mercy Falls” (2008) e “The Great Escape” (2010) in cui ispirazione, emotività e tecnica raggiungevano vette elevatissime ed in cui soprattutto, la sfera strumentale e quella del cantato, convivevano armonicamente, in un rapporto di equilibrio e rispetto reciproco.
The Testament invece non è altro che un'ulteriore esaltazione, non si sa quanto voluta, ma comunque assolutamente fine a sé stessa, delle abilità di
Tommy Karevik che, per valorizzare al meglio la sua ugola, si cimenta in refrains infarciti di melodie di facile presa, dalle tonalità medio-alte-altissime, che ovviamente raggiungono l'obiettivo, esaltando oltremodo la sua voce (come se ce ne fosse bisogno!).
Ma quanto è bravo Tommy!
Ma quanto è figo Tommy!
Va bene, ci può stare tutto, ma adesso
Karevik sta cominciando ad esagerare, monopolizzando pesantemente la scena a scapito degli altri componenti e sconfinando inoltre in alcuni ritornelli che strizzano vistosamente l’occhio, in maniera preoccupante, a linee vocali sempre più vicine al pop (VADE RETRO SATANA!!!) o, nel migliore dei casi, al rock melodico, ma si tratta pur sempre di passaggi troppo lineari, che poco hanno a che vedere con il "DNA prog" della band.
Emblematici, a tal proposito, i refrains di
The Light,
Invincible, o ancora di
I Carry The Blame, pezzi che funzionano, se analizzati solo dal punto di vista squisitamente strumentale, grazie alla loro struttura intricata ma armonica, che tuttavia, diventa inopportunamente uniforme, ogni qual volta entrano le melense linee vocali, la cui eccessiva regolarità cozza decisamente con l’articolata partitura dei brani.
Insomma, in parole povere, è come se esistesse una netta frattura tra il cantato e la musica, con il primo elemento che, alla lunga, ha sempre la meglio ed è davvero un peccato, anche perché obiettivamente, gli altri membri della band non meritano assolutamente di essere oscurati dalla voce, ma anzi, dimostrano tutte le proprie abilità, nella strumentale
Reflections e, a sprazzi, ma sempre in modo particolarmente convincente, in tracce quali l’iniziale
Warrior, la claustrofobica
Mindkiller e la poliedrica
Under A Clear Blue Sky, composizioni che innalzano il livello qualitativo e mettono in risalto lo stato di grazia di
Johan Liefvendahl alla chitarra e
Andreas Söderin alle tastiere, oltre alla buona intesa tra
Andreas Blomqvist (basso) e
Stefan Nogren (batteria) alla sezione ritmica.
In conclusione, la classe dei
Seventh Wonder non si discute, ed anche in un lavoro, talvolta controverso, come
The Testament riesce a farsi apprezzare, ma da loro è lecito attendersi molto di più. Invece purtroppo, in questo disco emergono gli stessi identici limiti del precedente “Tiara”.
Infatti, probabilmente complice anche un certo offuscamento a livello di song-writing, in quest’ultima fatica discografica, i Nostri si ostinano a voler riproporre nuovamente, a tutti i costi, il medesimo registro musicale degli album più riusciti in passato (“Mercy Falls” su tutti), senza però considerare che alcuni equilibri interni alla band si sono ormai modificati da tempo; andrebbe in particolare rivisto il rapporto con
Karevik che, forte del successo degli ultimi anni, anziché mettere la propria voce a disposizione della musica, come avveniva un tempo, abusa delle proprie doti, facendone uno sfoggio inutile e talvolta anche controproducente.