La sindrome di Giorgia
Ci sono cantanti, in giro per il mondo ed in qualsiasi categoria, che, pur dotati di una voce bella, potente, affascinante, usata in maniera iperprofessionale, si ritrovano a cantare canzoni
brutte. Molto spesso il danno è inflitto dall'esterno (vedansi scrittori, team creativo, produttori, ecc.), ma qualche volta sono gli stessi performer a non avere proprio la penna benedetta dal cielo. Ecco, un mischione dei due casi succitati è quello che succede in questo nuovo album di
Jorn.
Il leone norvegese ormai non ha bisogno di alcuna presentazione, avendo alle spalle una discografia smisurata ed attestati di stima da ogni angolo del globo. Ma quello che, per l'appunto, gli manca, in questo nuovo "
Over the Horizon Radar" che esce per
Frontiers (e si sente, con tutte le implicazioni positive e negative che tale affermazione si porta dietro), è proprio la qualità delle canzoni, che non sono necessariamente brutte, peggio ancora: sono innocue, banali, trite ripetizioni di cliché abusati oltre ogni umana decenza. Ma, ai piani alti vuol così, per cui, assemblata la 'solita' band dal roster della label, ci viene servito un dischetto di circa 58 minuti, con brani spesso anche dall'eccessivo minutaggio, dove i picchi sono pochi e l'aurea mediocritas tanta.
Ora, soffermiamoci anche un attimo sul concetto di '
band'. Da dove vengo io, dicesi 'band' un gruppo di esseri umani che suona insieme. Così, facile facile, senza grosse preoccupazioni. Ora, siamo tutti d'accordo sull'assunto? Ecco, gli Jorn (come un milione di nuove bands, o dio ce ne scampi, i 'supergruppi'... rabbrividisco...) probabilmente si saranno visti due volte su skype, ed il lavoro di cucitura e assemblaggio sarà poi stato fatto dal tanto spesso citato 'team creativo' della label nostrana, che cerca di ricamare attorno alla voce di Jorn una manciata di idee, arrangiate con l'algoritmo in modo che risultino piacevoli, con quel gusto retrò di già sentito che te le fa suonare familiari, senza mai osare e senza mai uscire da quello che i trend di mercato propongono come vincente e vendibile. Così facendo, però, si perde del tutto la vera natura di un genere, il rock duro in tutte le sue sfaccettature, che invece SI BASA proprio sull'opposto concetto: comunione di intenti, sudore, fatica artistica condivisa, unicità anche a discapito della vendibilità. E' un concetto che ormai trovo sempre più raramente in giro, e che in questo album purtroppo manca completamente. Se a tutto questo, poi, aggiungi che la voce di Jorn forse inizia a perdere un po' di estensione, e che in alcuni frangenti mi sembra un po' priva di mordente, di quella cazzimma che è LA quota stilistica di gente come lui, Russell Allen, e tutti i figli di Dio, allora capisci che ti trovi davanti ad un lavoro precario, che può piacerti ma che non riesce a restarti in testa.
Per me, episodi come questo sono gli spiacevoli prodromi di una tendenza ahinoi dilagante, preoccupante e che non porterà niente di buono alla musica che tanto amiamo. Se invece per voi, vale solo sentire Jorn cantare su dei nuovi brani hard rock/metal melodici e aggressivi quanto basta, beh accomodatevi e buon appetito.