Gli
Heilung continuano il loro percorso verso terre sconosciute e ancestrali, in un mondo tutto loro.
Questa formazione, questo terzetto sarebbe riduttivo chiamarlo folk, perché pur non usando gli strumenti elettrici ma solo quelli squisitamente acustici i nostri dipingono uno scenario dove la musica diventa rito pagano.
No, non è uno sterile scimmiottamento come di solito mi è capitato di ascoltare dove ci sono nomi di divinità buttati a casaccio, qualche tamburellata e vocioni finto posseduti per forse scandalizzare i benestanti o far eccitare qualche appassionato d’occultismo che non va più in là delle trombate lette su
Wikipedia.
Qui il succo è profondo, studiato e sentito; si percepisce che la musica fa da tappeto per portarti in un tempo lontano; basta ascoltare le percussioni lente ma meditate con interventi strumentistici dell’opener “
Asja” o la ritmata “
Anoana” dal tempo ciondolante quasi cerimoniale con la voce femminile che sembra fondersi con gli strumenti mentre la maschile cantilena una sorta di preghiera.
Cosa è se non un mantra pagano, antico “
Urbani” con l’invocazione che ritmicamente va di pari passo con le percussioni o la narrazione sentita e possente di “
Keltentrauer”?
Non vi voglio dire altro di più, starà a voi scoprire la bellezza e profondità di questa sorta di esperienza che non coinvolge solo l’udito ma è più estrema, intima se avrete la pazienza e sensibilità di sentire nel vostro essere.
Se gli
Heilung sono apprezzati dai metallari più estremi durante i festival dove chiamano band forse diametralmente opposte come visione artistica ci sarà un perché, scopritelo, iniziate il viaggio, ne vale veramente la pena.
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