Per i
rockofili della mia generazione è davvero difficile assorbire senza scossoni il cambio di
frontman dei propri beniamini. Tanto più se tali personaggi sono anche diventati vere icone del settore, per carisma, personalità e impatto sull’immaginario collettivo.
Il mondo però va avanti (o indietro, spesso …), i gruppi litigano (per poi qualche volta riappacificarsi …) o semplicemente si separano per le classiche “divergenze musicali” e come si può affrontare il cambiamento senza indugiare nella “nostalgia”?
L’impegno deve essere triplice … l’ascoltatore deve sforzarsi di liberarsi dal “ricordo” che rende il passato quasi sempre migliore del presente, la
band in questione deve mantenere la propria integrità artistica e il nuovo cantante deve saper gestire l’inevitabile confronto con il giusto temperamento, evitando di tentare impraticabili riproduzioni.
Ebbene, se la mia parte l’ho fatta fin dal primo contatto con “
The gang’s all here”, bisogna rilevare come anche gli
Skid Row, oggi capitanati da
Erik Grönwall, siano riusciti a sfornare un lavoro davvero coinvolgente, degno delle gesta del gruppo e capace di mescolare abilmente l’incontenibile forza degli
anthem con sonorità più ricercate.
E allora diciamolo, senza ovviamente nulla togliere a un
songwriting assai efficace, molti meriti di tale risultato sono da ascrivere all’ex voce degli H.E.A.T, perfettamente inserito nel tessuto connettivo della formazione americana, autore di una prestazione maiuscola, in grado di offuscare quella dei suoi pur bravi predecessori (
Johnny Solinger,
Tony Harnell e
ZP Theart) e addirittura sostenere, almeno dal punto di vista tecnico / interpretativo, lo scomodissimo paragone con
Sebastian Bach, indimenticato titolare primigenio del microfono degli
Skid Row.
Insomma, da ultimo arrivato lo svedese si è trovato a svolgere egregiamente il ruolo (per rimanere in tema dei riferimenti estetici scelti per l’albo) di “
leader of the pack” e assieme agli storici
Bolan,
Sabo e
Hill, e al “seminuovo”
Hammersmith, offre ai
fans del gruppo esattamente quello che si aspettano, e cioè una dirompente miscela di
hard-rock e
street metal, figlia dei suoi esordi senza per questo scadere in sterili esibizioni di
amarcord.
Un crogiolo che comincia a spargere incandescenti lapilli sonori con il pulsante atto d’apertura “
Hell or high water” e innalza ulteriormente il livello della combustione con la
title-track dell’opera, davvero perfetta per essere cantata a squarciagola nella bolgia di un concerto.
Energia ai massimi livelli anche per l’inno
sleazy “
Not dead yet”, mentre a “
Time bomb” è affidato il compito di rallentare il ritmo e scurire i toni, per poi aprirsi in un
refrain ad ampio respiro di notevole suggestione.
Piace, e parecchio, la melodia ficcante, dal tocco
bluesy, di “
Resurrected” e lo stesso giudizio si può tranquillamente estendere alla poderosa “
Nowhere fast” (vagamente affine a certe soluzioni di “
Subhuman race”), alla più sbarazzina “
When the lights come on” e a “
Tear it down”, un altro eloquente manifesto di come il cosiddetto “arena rock”, pur nella sua essenzialità formale, possieda ancora un fascino importante.
Impossibile, però, non rammentare l’attitudine degli
Skid Row alle circostanze soniche maggiormente passionali e struggenti, qui ottimamente rappresentate dall’intensa “
October’s song”, capace di ostentare una notevole tensione emotiva senza “scimmiottare” precedenti memorabili.
La bordata finale “
World’s on fire” aggiunge altro materiale utile alle esibizioni
live di una
band che sembra davvero aver ritrovato pienamente sé stessa, non rinnega la sua “storia” e al tempo stesso riesce a riproporla con la disinvoltura e l’ispirazione tipica di chi è consapevole che il passato è impossibile da replicare. Ora tocca a voi essere “all’altezza” della situazione e, in piena libertà, godere di “
The gang’s all here” per quello che è … un modo eccellente per saziare abbondantemente gli appetiti emozionali di tutti gli estimatori del genere