Niente, nemmeno stavolta i Judicator ce l’hanno fatta.
La pur simpatica (come potete vede dal video qui sotto) band originaria di Salt Lake City, che in occasione del precedente “Let There Be Nothing” (2020) sembrava aver finalmente imboccato la strada giusta, a livello di sound e scrittura, con questo The Majesty Of Decay, sesto disco in studio, edito per la Prosthetic Records, invece di proseguire sulla retta via, ci ricasca in pieno, facendo registrare un enorme passo indietro, finendo nuovamente per impantanarsi nelle lande paludose che ne avevano frenato l’evoluzione, già durante gli inizi di carriera.
Ancora una volta infatti, i Judicator mostrano degli evidenti limiti creativi, da un lato rimanendo ingabbiati nelle loro rigidissime influenze dei Blind Guardian più sinfonici (certo, mi direte voi, non sono gli unici...chi ha detto Persuader???) e, dall’altra parte, dando vita ad una serie di brani privi di mordente (vedi l’accoppiata Ursa Maior/Ursa Minor) e con delle scelte stilistiche quantomeno discutibili (come l’inserimento assolutamente sconcertante di sax e fiati vari in The High Priestess e nella conclusiva Metamorphosis), infarcite di orchestrazioni oltremodo opulenti e di cori e coretti che sono, come si suol dire, tanto fumo e niente arrosto.
Comunque, l’aspetto più inquietante di The Majesty Of Decay, è la preoccupante involuzione a livello di song-writing rispetto al suo predecessore; quest’ultimo, pur essendo sempre un disco palesemente derivativo, aveva comunque fatto registrare dei piccoli (ma evidenti) passi in avanti in termini di personalità e invece adesso, purtroppo la band ricade nei medesimi errori di sempre.
In tal senso, è emblematica la voce del frontman John Yelland, nonché leader dei Judicator, il quale, piuttosto che apportare qualcosa del proprio bagaglio tecnico, si limita semplicemente a scimmiottare Hansi Kürsch (quello più melodico, nemmeno quello più aggressivo dei primi anni). Ma, a onor del vero, il singer non è l’unico colpevole di questa piattezza musicale, a cui infatti contribuisce in maniera non indifferente anche il nuovo chitarrista Balmore Lemus che, non si sa quanto volontariamente, con il suo strumento non morde mai, ma segue semplicemente le principali linee melodiche delle composizioni, senza incidere.
E’ davvero un peccato, perché i Judicator avrebbero tutte le carte in regola per poter fare molto meglio di cosi e lo dimostrano in alcune tracce in cui si registrano dei sussulti d’orgoglio, come la (a tratti) brillante Daughter Of Swords o The Black Elk, ma sono delle piccolissime gocce in un mare di monotonia e ripetitività; si tratta di composizioni che, alla lunga, si rivelano troppo prevedibili ed in cui, ancora una volta, i pesanti “echi blindguardiani” emergono sempre prepotentemente, finendo per inghiottire tutto ciò che incontrano lungo il loro cammino, dominando la scena anche in Judgment, altro brano con enormi potenzialità, che tuttavia non ingrana mai del tutto.
Come dite?
Forse quando i Judicator hanno scelto il titolo di questo nuovo album si riferivano alla loro, di decadenza?
Siete sempre i soliti vecchi metallari sarcastici e maligni!
Ad ogni modo, occasione persa, peccato!
Non è ancora stata scritta un'opinione per quest'album! Vuoi essere il primo?
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?