Prologo (ovvero fatti personali di chi vi parla e che potete saltare a piè pari)Molti "ragazzi" miei coetanei indicano nel
Black Album il più grande "tradimento" musicale subito da una band fondamentale nella propria formazione metallosa; per il sottoscritto invece (non che nel 1991 io abbia amato alla follia il 5° lavoro dei
Metallica, mentre con l'esperienza di oggi riesco a catalogarlo per ciò che è: un grandissimo album di hard rock dalla dirompente forza commerciale) la più cocente delusione sarebbe arrivata nel 2002 con l'uscita di "
Reroute to Remain".
Sino a quel momento gli
In Flames - con la parziale eccezione di "
Clayman" subito catalogato come un disco discreto ed assolutamente accettabile dopo tanti capolavori - stazionavano nell'Empireo intoccabile delle band della vita, vista l'incredibile bellezza degli album pubblicati dalla loro nascita: il debutto folgorante di "
Lunar Strain" seguito dall'EP "
Subterranean" forse addirittura superiore, passando per i monumentali "
The Jester Race", "
Whoracle" e "
Colony".
Tanto per dire: per il mio gusto il solo di "
December Flower" resta ineguagliato in ambito death melodico.
Ma da "
RTR" tutto è cambiato; certo, di tanto in tanto (la classe non si perde...) qualche brano che mi ha fatto sussultare è arrivato - "
Take this Life", "
Crawl Through Knives", "
I'm the Highway", "
Delight and angers" - ma la magia si era interrotta e qualcosa si era spezzato.
VENTI ANNI DOPO...
Anders e
Björn danno alla luce "
Foregone" e forse - FORSE- qualche filo riprende ad annodarsi.
Sgombriamo subito il campo da paragoni arditi ed imbarazzanti e commenti sentiti in giro per il web: il 14esimo full length degli Infiammati non è un ritorno al passato, non è una copia carbone, non gioca nemmeno nello stesso campo da gioco dei primi, insuperabili lavori.
Chiarito questo possiamo procedere ed analizzarlo con onestà intellettuale per quello che è: un BEL DISCO di metal moderno.
"
Foregone" parla del tempo perduto: tutto sembra andare nella direzione sbagliata secondo
Fridén, non è possibile recuperare il tempo trascorso; ecco perché l'album si chiama così.
Siamo destinati a finire e questa consapevolezza crea diverse emozioni: panico, frustrazione, paura; il vero orrore è quello che sta accadendo in tutto il mondo. Siamo fondamentalmente condannati ed il disco parla dei pochi momenti che restano e di cosa ne facciamo.
Il lotto di brani - 11 più la strumentale intro "
The Beginning of All Things That Will End" - si divide tra ammiccamenti al passato chiamiamolo post-"
Colony" ("
State of slow decay", "
Foregone pt.1", "
The Great Deceiver", "
Meet your Maker") ed inevitabili pulsioni moderne e radio-oriented ("
Bleeding Out" forse il punto più basso dell'album, "
Pure Light of Mind", "
In The Dark", "
Cynosure").
Ciò che colpisce positivamente in questo "
Foregone", oltre al fatto che i brani entrino facilmente nel cervello, è il sorprendente impatto di
Tanner Wayne dietro le pelli e soprattutto dell'ex chitarrista di
Megadeth e
Jag Panzer Chris Broderick (al primo disco con gli
In Flames) capace di combinare al meglio le sue influenze più classiche ai riff di
Bjorn.
Stupisce inoltre il ruolo marginale rivestito dalle derivazioni più metalcore, sostituite da frequenti passaggi clean non sorretti da quantità esorbitanti di filtri ed effetti ("
Foregone pt. 2" o "
A dialogue in B flat minor").
Un capolavoro quindi?
Un disco in grado di guardare i primi album negli occhi senza arrossire?
Certamente no ma, ripensando al precedente "
I, the Mask", "
Foregone" non è un miglioramento: è un MIRACOLO, sorprendente proprio perchè impronosticabile.
"
Non farlo Anders. Non darmi speranza." (cit.)
In Flames - "
Foregone pt. 1"