Ascolto “
F.U.B.A.R.” e penso che se fossimo alla fine degli anni ottanta gli
Hell In The Club, anche per evidenti meriti pregressi, sarebbero sulle copertine di tutte le riviste specializzate.
Poi, riflettendo appena un po’ di più (!), mi rendo conto che l’essere italiani avrebbe quasi sicuramente condizionato la loro esposizione mediatica a livello internazionale, in tempi in cui la credibilità del
Belpaese in certi ambiti musicali era davvero minima.
E allora, considerando la “globalizzazione” uno dei pochissimi aspetti positivi dell’attuale panorama discografico, non mi resta che accogliere il sesto
full-length del gruppo con l’entusiasmo che si riserva ai protagonisti del settore, ormai giunti a quel livello di maturità artistica che li distingue dalla massa e non rischia di farli confondere tra i molti “nostalgici” dell’
hard n’heavy / sleaze rock ottantiano.
A fare la differenza, oltre alle spiccate doti tecniche, è come sempre una qualità melodica di livello superiore, il tutto assemblato tramite un
feeling genuino e “naturale”, capace di sbaragliare la concorrenza onorando la storia del genere senza ricorrere a mistificazioni, confermando un amalgama, un’ispirazione e un coefficiente di assimilazione dei “testi sacri” davvero esemplare.
“
F.U.B.A.R.” (acronimo di
Fucked Up Beyond All Recognition, frase colloquiale che identifica una situazione - o una missione in campo militare - ormai compromessa e irrecuperabile) è dunque un nuovo concentrato di adrenalina, aggressività, divertimento e seduzione, ed è veramente complicato trovare un momento debole in queste undici folgori di
rock n’ roll, al tempo stesso “assennate” e ricreative, “classiche” e moderne, ancora una volta in qualche modo “sorprendenti” anche per chi si ritiene un fedele estimatore della
band.
Una sequenza piuttosto “impressionante” di canzoni inaugurata da una “
Sidonie” che concentra fin da subito le migliori caratteristiche (costruzione armonica adescante e raffinata,
refrain a “presa rapida” e una forza espressiva da manuale) del tipico
songbook degli
Hell In The Club.
Si prosegue con “
The arrival”, con le sue accattivanti pulsazioni
anthemiche, la deflagrante e insinuante “
Total disaster” e una straordinariamente intrigante “
The kid”, che vi ritroverete a canticchiare anche solo dopo un primo contatto.
“
Best way of life” e (soprattutto) “
Cimitero vivente” (solo il titolo è in madrelingua, peccato …) sono altri due esempi lampanti di come si possa essere contemporaneamente trascinanti, “cattivi” e orecchiabili e se “
Sleepless” incendia i sensi a colpi di
riff e di smaniosi ammiccamenti vocali, “
The end of all” scurisce il clima dell’opera, per poi aprirsi in un suggestivo ritornello dai contorni vagamente psichedelici.
Ai palati sonori maggiormente “pragmatici” sono dedicate “
Undertaker” e la contagiosa “
Tainted sky” (una sorta di Britny Fox
meets Def Leppard) mentre la
Alice Cooper-
esca “
Embrace the sacrifice” ostenta nuovamente la versatilità dei nostri, abilissimi anche quando si tratta di ammantare di esotico, notturno e morboso mistero le loro composizioni.
Tra i pochi in grado di contrastare efficacemente l’egemonia nordeuropea nell’ambito stilistico di riferimento, gli
Hell In The Club per ora conquistano di diritto (oltre ad un piazzamento d’onore nella mia personale
top playlist annuale …) la prestigiosa sezione
Highlights di
Metal.it, ma sono sicuro che anche il “resto del mondo” non potrà che riconoscere la loro invidiabile superiorità artistica.