Lo ammetto … da “semplice” uditore sono sempre un po’ scettico quando un gruppo viene pomposamente definito (dalle fonti d’informazione che “contano” …) la
next new thing del
rockrama odierno o i “nuovi qualcun altro”.
E così può capitare che mi ritrovo a sviluppare una (arbitraria) prevenzione nei confronti dell’oggetto di tali riconoscimenti, limitandomi ad ascolti superficiali e poco approfonditi.
Un atteggiamento senz’altro disdicevole che spesso riesco fortunatamente a emendare grazie a
Metal.it e alla possibilità di sviscerare con “professionale” applicazione un prodotto musicale che altrimenti probabilmente avrei sottovalutato.
È questo il caso dei
Dirty Honey, già da un po’ al centro dell’attenzione per il loro
exploit mediatico (relativo
eh, mica parliamo dell’ennesimo “fenomeno”
pop/rap/trap …) nelle vesti di “nuovi Aerosmith” e di fautori del rilancio in grande stile dell’
hard-rock statunitense.
Ebbene, ascoltando con doverosa attenzione il loro “
Can’t find the brakes” posso tranquillamente affermare che i
ragazzacci di Boston sono effettivamente tra i principali numi tutelari dei nostri, assieme a AC/DC, Led Zeppelin, Rolling Stones, Free, Little Feat e Faces.
Fonti ispirative tutt’altro che “inedite”, trattate però dal quartetto
losangelino con un’urgenza espressiva calorosa e vivace, finendo per ricordare formazioni quali Great White, Salty Dog, The Answer (soprattutto i primi) e The Black Crowes, capaci, nelle varie epoche di riferimento, di esaltare e non sprecare con fastidiosi manierismi un’eredità tanto prestigiosa quanto sfruttata.
Da qui ad avvalorare pienamente la summenzionata iperbolica investitura manca ancora un “qualcosa” in fatto di carisma ed esperienza (senza contare una “tenuta” tutta da verificare …), ma sono certo che gli estimatori dei suddetti non potranno rimanere insensibili di fronte alla spavalderia
funky di “
Won’t take me alive” e alla contagiosa “
Dirty mind”, con il suo
groove denso e vischioso.
A chi preferisce vibrazioni palpitanti di marca “australiana” è indirizzata “
Don’t put out the fire”, mentre la splendida “
Roam” riserva la prima prepotente scossa intimistica dell’opera, con il
vocalist Marc LaBelle che si palesa nelle pregiate vesti di autentica rivelazione della fonazione modulata contemporanea.
La chitarra
slide e il clima
blues n’ soul di “
Get a little high” rischia di far arrossire d’invidia anche
Chris Robinson e se “
Coming home (Ballad of the shire)” affascina con le sue bucoliche atmosfere acustiche vagamente alla Temple of the Dog, la
title-track dell’albo irrompe nei sensi con il suo vorticoso carico elettrico, di fronte al quale è quasi inevitabile provare un moto di impellente trasporto.
Impeto impossibile da arginare, poi, almeno per gli
Zeps-fans, con la successiva “
Satisfied” (ottimo il lavoro della sezione ritmica), seguita da un infuocato
hard-blues “da manuale” intitolato “
Ride on” e da una “
You make it all right” che avvolge l’astante in un bozzolo quasi
gospel, pilotato ad arte dall’ugola flessuosa (impegnata anche in un suggestivo falsetto) di
LaBelle.
In ossequio al celebre aforisma “
tutto arriva a chi sa attendere”, ecco che tocca all’ultimo pezzo in programma, “
Rebel son”, piazzare la vera
killer-track del disco, esplicitata attraverso un superbo, pulsante e torrido tributo alla “storia” del genere, tra Led Zeppelin, Rolling Stones e un primordiale
Rod Stewart.
Giunti alle conclusioni, senza indulgere in troppi clamori, accogliamo con gioia i
Dirty Honey tra gli eccellenti interpreti di un suono immortale, degnissimi rappresentanti di quel “ricambio generazionale” auspicabile e necessario.