Ai danesi
Septage, trio goregrind di Copenaghen, bastano solo venti minuti per far comprendere a tutti chi sono…
Figli di
“Reek of Putrefaction” (1988) e
“Symphonies of Sickness” (1989), i
Septage, con il loro primo lungo,
“Septic Worship (Intolerant Spree of Infesting Forms)”, rilasciato con il patrocinio delle etichette
Me Saco un Ojo Records,
Dark Descent e
Extremely Rotten, si collocano come alfieri fedeli, al fianco dei loro numerosi fratelli,
Gorerotted,
Impaled,
Exhumed,
Machetazo e molti altri, del verbo del gore più putrido e marcescente.
Forse, al momento, ancora più aderenti al grind rispetto a molti loro colleghi, e dunque esenti, o quasi (poiché sarebbe impossibile esserlo integralmente), dal processo di commistione con il death/brutal, e da quella “patina” melodica talvolta inflazionata di pregevoli tecnicismi che spesso è rinvenibile nel goregrind odierno. Tendenza originatasi in seguito all’introiezione della svolta più raffinata dei
Carcass di
“Necroticism – Descanting the Insalubrious” (1991) e
“Heartwork” (1993), a fianco di quella dei primi due full-length.
I danesi propongono quindici tracce velocissime dal sound ruvido e dalle venature hardcore indubbiamente debitrici ai
Napalm Death di
“Scum” (1987); molto affini ai dimenticati
Regurgitate, senza però a mio parere averne la medesima caratura.
L’LP nell’insieme è piacevole, e ovviamente, data la sua breve durata, scorre via con agilità. Tuttavia in un genere caratterizzato da eterogeneità e con relativamente poche possibilità di variabili stilistiche, come il grind/goregrind più puro, diviene fondamentale trovare elementi distintivi; magari con riffs freschi e in generale con un guitarwork più personale, possibilmente affiancato da linee vocali che riescano a infrangere, perlomeno in qualche misura, la barriera dell’inintelligibilità completa.
Qui, invece, purtroppo, è assente la suddetta scintilla che possa smuovere il desiderio di ascoltare i
Septage e non un’altra delle migliaia di band presenti nel panorama underground più seminale.
Anche se ci sono alcune eccezioni, che a mio avviso rappresentano dei punti nevralgici da rifinire e sviluppare, recanti in nuce la possibilità di fare la differenza nel processo di acquisizione di una vera e propria identità musicale da parte dei danesi. Mi riferisco ad alcuni rallentamenti strategici densi di groove come quelli rinvenibili in
“Candidiasis French Kiss”, nella conclusiva
“Başkasının Kusmuğu” e soprattutto in
“Bushmeat Banquet”, la quale contiene anche numerosi stop and go intriganti e sonorità putrescenti che lambiscono lidi sick/slam brutal.
Così come risulta degno di nota il riffing di matrice thrash di
“Haris ve Afir Dalyarakların Hazin Sonu (Nihai İnfilak)”, che tra l’altro assume una veste accattivante anche grazie all’inserimento di un accenno di urlo in “falsetto” che richiama il
Tom Araya degli esordi; pur rimanendo in ambito prettamente grind, sia chiaro.
È utile ribadire che il platter si ascolta volentieri... Merito anche di una produzione rétro, realizzata da
Marcus F. Collages, che riesce a non perdere di vista l’orizzonte sonoro dischiuso dalle uscite attuali, risultando forse assimilabile anche dai non “addetti ai lavori”…
Un passaggio rapido nel vostro stereo potete concederglielo…
Dal canto mio penso che tornerò ad ascoltare
“Horrified” (1989),
“Effortless Regurgitation of Bright Red Blood” (1994),
“Carnivorous Erection”(2000),
“Homovore” (2000),
“To Serve Man”(2002), ecc.ecc…
Recensione a cura di
DiX88
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