Ho sempre pensato che, escluse sporadiche eccezioni, quello che distingue un artista di valore (anche assai spiccato) da uno in grado di fornire un contributo realmente significativo alla causa della musica, sia la capacità di quest’ultimo di “crescere” nel suo percorso espressivo, senza snaturarsi ma anche senza fossilizzarsi in una formula univoca, nemmeno se si tratta di quella che gli ha garantito ampi consensi da parte di pubblico e critica.
Una dimostrazione di personalità (e “coraggio”, in una scena sempre più livellata e uniforme …) che nel paesaggio musicale odierno caratterizza pochissimi soggetti, e tra queste rarità mi sento tranquillamente di inserire i
Dool, giunti con “
The shape of fluidity” al terzo disco in studio.
Sebbene si tratti di un itinerario abbastanza “ristretto”, è infatti, evidente come il gruppo abbia ancora una volta voluto e saputo far evolvere la sua cifra stilistica, dopo l’impeto del debutto e le soluzioni contemplative del suo seguito.
Forse fatalmente più vicino per intenzioni a "
Summerland", il nuovo lavoro degli olandesi rende la sua fremente miscela di
gothic-metal e
dark-rock ancora più insinuante e fascinosa, anche grazie ad una prestazione
monstre di
Raven van Dorst, splendida interprete di nove ammalianti frammenti di autentica poesia sonica fosca e visionaria.
Un
collage di intense vibrazioni torbide e malinconiche prima ancora che una raccolta di canzoni, ecco cosa troverete in “
The shape of fluidity”, un’opera di straordinario trasporto emotivo attuato attraverso note che s’inseguono e si avviluppano in maniera seducente, raffinata, sinistra e tesa, per arrivare a raggiungere l’orlo degli abissi delle nostre coscienze.
Non è facile, in questo contesto profondamente emozionale, tentare una descrizione “didascalica” dei brani, e tuttavia dal momento che sottrarsi del tutto all’inevitabilmente lacunoso impegno finirebbe per disattendere la mia adorata
grafomania, diciamo almeno che se “
Venus in flames” e “
Self-dissect” sono splendidi esempi di inquieta, ipnotica e catartica energia oscura, con la sua
title-track l’albo conduce l’astante in un clima sonoro dove si alternano maliosa rarefazione e scatti tumultuosi, trascinandolo in un mondo straniante e sospeso.
“
Currents” funge da cinematografico preludio alla pulsante istintualità di “
Evil in you” (che piacerà ai cultori di “
Here now, there then” …), in contrasto con la solenne tragicità di “
House of a thousand dreams”, un conturbante spaccato di trascendente lirismo gotico.
Turbamento che non si placa neanche nei dissonanti chiaroscuri di “
Hermagorgon”, nell’imperiosa forza evocativa esalata da “
Hymn for a memory lost” (in cui nel cantato si scorge a tratti l’eco della
Patti Smith più visionaria …) e da una “
The hand of creation” che mescola
spleen, introspezione e melodramma con un equilibrio e un’efficacia da brividi.
“
The shape of fluidity” è dunque un (altro)
album che definisce la statura artistica dei
Dool, destinata verosimilmente ad ulteriori sviluppi, ma fin da oggi talmente elevata da non poter essere ignorata nemmeno dai tanti miopi frequentatori del
rockrama contemporaneo.
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