Soundgarden, The Tea Party, Wolfmother, Graveyard, Rival Sons … tutte
band che mi hanno convinto che le radici del
rock possono ancora essere rilette in maniera proficua, forti di una cultura ampia e variegata, di una spiccata ispirazione e di una capacità evocativa che respingono istantaneamente ogni eventuale accusa di nostalgia spudorata, plastificata e fittizia.
All’elenco certamente parziale (anche per l’inesorabile deterioramento mnemonico …), mi sento oggi di aggiungere i
The Lunar Effect, un quartetto londinese che nel suo secondo albo, “
Sounds of green & blue”, dimostra quanto sia abile nel mescolare psichedelia e
hard-rock, rimanendo fedele ai principi nodali di entrambi i generi, ma senza dimenticare la lezione del
grunge, capace, nei suoi migliori rappresentanti, di fondere diverse culture espressive in maniera creativa e costruttiva.
Led Zeppelin, The Doors, Black Sabbath, Cream, Free, Pink Floyd, sono questi i modelli primigeni dei
The Lunar Effect, tutta “roba” che condividono con tante altre formazioni contemporanee, non tutte però in grado di condensare tali nobili influssi in un suono che è al tempo stesso sintesi e superamento di quel fondamentale insegnamento.
Ed ecco che ha senso, per affinità stilistiche, accostare il nome dei nostri a quelli citati all’inizio della disamina, anch’essi da inserire nel novero dei “buoni maestri” della brillante coalizione britannica.
Passando ai contenuti dell’opera si parte alla grande con il
groove fuzzoso e circolare di “
Ocean queen” (a tratti non lontano dai primi Masters of Reality) per poi passare al roccioso pulsare Zeppelin-
esco di “
Flowers for teeth” e al clima avvolgente e “mistico” di “
Colour my world”, affine al lirismo vibrante esposto dai Temple Of The Dog.
“
In grey” è un coinvolgente
slow bluesy (con un pizzico di The Animals nell’impasto sonico), mentre il piano di "
Middle of the end” aggiunge un’ulteriore coloritura decadente e visionaria ad un programma che in “
Pulling daisies” mischia sapientemente
Zeps e The Doors e in "
I can’t say” aggredisce i sensi alternando sciamaniche e ombrose narrazioni soniche a ruggiti
hard-blues.
In “
Fear before the fall” è nuovamente il pianoforte di
Jon Jefford a sostenere una ballata malinconica e sofferta (che potrebbe non spiacere nemmeno agli estimatori dei Suede o di certi Radiohead) dall’imponente impatto emotivo, lo stesso che poi intride l’atto conclusivo "
On the story goes”, un altro momento di grande musica inquieta, pulsante e magnetica, che tiene ancora una volta l’astante inchiodato all’ascolto anche grazie all’intensa interpretazione di
Josh Gosling, innegabile punto di forza di una formazione compatta e competente.
Nell’attesa (forse chimerica …) che arrivi qualcosa di veramente “rivoluzionario”, sostenere chi sa, come i
The Lunar Effect, filtrare l’inestinguibile luce della “tradizione” attraverso un prisma di temperamento, buongusto compositivo e tensione espressiva, diventa una priorità per chiunque abbia a cuore le sorti del
Grande Vecchio Rock n’ Roll.