Stelios Makris, in arte
Soulreaper, con la sua creatura
Winter Eternal, arriva al traguardo del quarto full-length:
"Echoes of Primordial Gnosis", sotto l'ala della
Hells Headbangers Records.
Per approssimazione possiamo affermare che
"Echoes of Primordial Gnosis" si mantiene sulle medesime coordinate del suo predecessore, tuttavia con una qualità a mio avviso mai raggiunta dal gruppo.
Stelios ci consegna un disco di
Hellenic Black Metal dai toni non troppo gelidi e marcatamente melodico; probabilmente retaggio di quanto ereditato da band come i
The Elysian Fields, i
Naer Mataron di
"Up from the Ashes" (1998), l'epicità degli
Zemial, oltreché dal repertorio melodico dei
Rotting Christ, e ovviamente qualcosa di proveniente dalla penisola scandinava.
A questo vi si aggiungono varie incursioni nel melodic death di matrice svedese, che guardano nella direzione di formazioni quali
Gates of Ishtar, di cui tra l'altro, nel precedente
"Land of Darkness" (2021), i greci ci deliziarono con una cover di
"Dawn of Flames".
Il nuovo lavoro dei
Winter Eternal scorre via con grande facilità, avendo un running time di soli 33 minuti scarsi suddivisi in otto brani.
Si tratta dell'opera più melodica e sinfonica che fino ad ora abbiano mai inciso; dove le partiture orchestrali risultano fortemente potenziate rispetto al passato.
Qui sono abbondanti le trame di violino, violoncello, e strumenti a corda classici piuttosto che di tastiera. Questi non si limitano a ricavarsi uno spazio separato dagli altri strumenti; bensì, si innestano e amalgamano perfettamente insieme alle strutture portanti dei brani; divenendo dunque un tutt'uno con il guitarwork e la sessione ritmica di basso e batteria.
C'è molto pathos in questo
"Echoes of Primordial Gnosis", e una ricerca di profondità sia nel songwriting che nelle sfere tematiche; le quali sembrerebbe vadano a rivisitare, in ogni traccia, un grande personaggio del passato. Un eroe. Quelli che mancano al giorno d'oggi.
Abbiamo melodie che si snodano sul filo dell'Epic/Heavy, soprattutto in fase solistica, come per esempio in
"Battle Cry"; numerosi sentori folk, a tal proposito cito a scopo esemplificativo
"Heavens as One"; e in generale una magniloquenza suggestiva dai forti sentori classici come quella contenuta in
"The Serpent's Curse" (impreziosita da magnifiche liriche femminili).
Tutto ciò ci proietta all'interno di una concezione poetica e tragica dell'arte che ormai è scomparsa nell'oblio della nostra civiltà, a favore di una tecnica sterile e asettica che viene spacciata per progresso.
Non a caso gli antichi greci sono i padri della tragedia...
Eschilio e
Sofocle, sono questi i punti cardinali a cui tutti dovremmo guardare per una sana meditazione della dimensione dell'arte.
Non fatevi sfuggire questo squarcio di poesia, declinata nell'alveo della dolcezza di un suono quantomai analogico.
La sua è un'oscurità epica: arde ancora del sangue versato dai nostri padri.
Recensione a cura di
DiX88
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