Riuscite ad immaginare un incrocio tra King Crimson, Curved Air, Black Sabbath, Crisis, Blue Cheer e
P. J. Harvey? Non è semplicissimo, ma se gradite le “contaminazioni” sono fermamente convinto che una suggestione del genere possa stimolare la vostra attenzione
rockofila.
La mia, i
Djiin l’hanno conquistata appieno fin dal primo contatto con “
Mirrors”, un disco che è una specie di “sogno” ad occhi (ed orecchie) aperti per tutti quelli che amano un suono conturbante e imprevedibile, una sorta di perenne equilibrismo musicale sull’orlo dell’abisso, con la voce torbida, schizofrenica ed evocativa di
Chloe Panhaleux che suscita continui e intensi brividi emozionali.
Al resto provvede la chitarra fremente di
Tom Penaguin e una sezione ritmica, formata da
Charlélie Pailhes e
Allan Guyomard, davvero efficace ed eclettica, preparata ad assecondare le diverse diramazioni soniche che alimentano il programma.
Siamo dunque di fronte ad una ricerca di distinzione artistica e di rottura degli schemi da plaudere senza indugi, e anche se forse la piena integrazione stilistica non è ancora stata raggiunta, il modo di “pensare” musica del quartetto francese è certamente chiaro e realizzato attraverso una cura espressiva già molto intrigante e fascinosa.
Un programma fatto di cinque brani, lunghi e articolati, che con “
Fishs” svela immediatamente l’intrinseca irrequietezza dei
Djiin, alle prese con una forma di pulsante
stoner-rock intriso di languori crepuscolari, mentre con la
title-track dell’opera i francesi arrivano ad esporre geometrie sonore ancora più oblique e irregolari, dove vengono mescolati battiti tribali, fraseggi spezzati di scuola
prog, squarci
metallici e atmosfere tenebrose ed eteree tra psichedelia e
dark-wave.
“
(In the aura of my own) sadness” è un viaggio orientato verso gli angoli più reconditi e iridescenti dell’anima, pilotato dall’interpretazione istrionica della
Panhaleux e capace di attraversare terreni
jazzati e spirali lisergiche con sorprendente disinvoltura.
Con “
Blind” il clima si fa decisamente più insidioso e lugubre, alimentato da chitarre ribassate, ritmi impetuosi e dai vocalizzi viscerali della cantante, e anche il
break strumentale, sospeso nell’etere, non è per nulla rassicurante, ampliando il senso di turbamento e claustrofobia trasmesso dal brano.
Una percezione che in realtà viene confermata anche dall’ascolto di “
Iron monsters”, che pur all’inizio si muove su registri maggiormente diafani, resi però inquieti dalle chitarre sinistre e taglienti e dalla tensione efferata ed apocalittica che grava sull’epilogo di un
album complessivamente assai impressionante.
Tentare di superare le pastoie delle categorie e sovvertire le “regole costituite”, nel
rockrama contemporaneo, è un fatto piuttosto infrequente e riuscirci in maniera convincente, sagace e coinvolgente è davvero una rarità … elogiare e sostenere i
Djiin per intenzioni e risultati diventa, pertanto, assolutamente necessario e propedeutico ad affinare tanta audace e multiforme vitalità artistica.