Prima di tutto, un quesito rivolto in modo particolare ai
rockofili della mia generazione, che hanno vissuto in prima persona i tempi in cui gli Stryper distribuivano bibbie al pubblico e gli L.A. Guns trattavano disinvoltamente di “
Sex action” e di “
Bitch is back” … avreste mai immaginato che una quarantina d’anni dopo il cantante degli uni e il chitarrista degli altri avrebbero unito le loro forze?
E poi, allargando anche dal punto di vista anagrafico la platea dei potenziali interlocutori, vi sareste aspettati che tale “bizzarra” alleanza avrebbe avuto un seguito, dopo il primo esperimento discografico (“
Evil and divine”, non particolarmente esaltante, aggiungo …) del 2021?
Risposta negativa in entrambi i casi, per quanto mi riguarda, ma evidentemente i tempi e gli artisti cambiano, così come il proliferare dei cosiddetti
side-project non ha limiti, nemmeno se la stagflazione dell’attuale scena musicale e la “recessione” del mercato del disco suggerirebbero forse strategie più mirate.
Tant’è … “
Light up the sky”, secondo frutto, a nome
Sunbomb, della collaborazione tra
Tracii Guns e
Michael Sweet (coadiuvati da
Adam Hamilton e
Mitch Davis) è qui pronto per essere ascoltato, determinato a dimostrare al “mondo” degli scettici e dei disillusi che la
partnership è fruttuosa e si è affinata e consolidata nel tempo.
Beh, se da un lato rispetto all’esordio qualche piccolo miglioramento dal punto di vista del
songwriting è effettivamente rilevabile, dall’altro rimane tuttavia piuttosto pressante la sensazione di una “commemorazione” di Black Sabbath, Rainbow, Dio e Judas Priest abbastanza manieristica, fondata essenzialmente sul “mestiere” e sulle doti tecnico / interpretative di un duo di eccellenti e scafati musicisti.
Ciò non toglie che le pulsazioni possenti e “valvolari” di “
Unbreakable” riescano a sollecitare piuttosto efficacemente i sensi degli estimatori dei
Sabs o che “
Steel hearts” sferragli ad arte nei medesimi gangli sensori, di certo non indifferenti pure alle stimolazioni di marca Rainbow-
esca.
Nello stesso ambito espressivo, addirittura più incisivi si rivelano “
In grace we'll find our name”, un rosario pernicioso e catartico sgranato durante un rito sabbatico
settantiano e l’evocativa
title-track dell’opera, che sposta il
focus della questione nel decennio successivo.
Il possente
hard-blues “
Rewind” e l’impeto di “
Scream out loud” e delle scorie
class-metal di “
Beyond the odds” si attestano sui livelli di una dignitosa “celebrazione” della
Grande Storia del Rock, mentre “
Winds of fate” piace per il clima visionario e trasognato (con un po’ di “fantasia”, potremmo parlare di una specie di fusione tra Pink Floyd e
Ozzy Osbourne) e “
Reclaim the light” per il tocco esotico e un
Guns credibile emulo di
Mr. Blackmore.
La ballata elettroacustica “
Where we belong” e l’
heavy rock cupo e metallico “
Setting the sail” aggiungono altri due frammenti di discreto pregio ad un programma che, in sintesi, si lascia ascoltare senza sbarranti preclusioni, ammesso che siate accaniti appassionati del genere e vi accontentiate di un esercizio di “bella calligrafia” perpetrato da chi, per blasone e carisma, meriterebbe ben altro che finire per essere assoggettato alla qualifica di “semplice” (per quanto fine e provetto)
amanuense sonoro.
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