Tanta buona volontà, doti tecniche di tutto rispetto, che si concretizzano mediante assoli e passaggi chitarristici degni di nota (del resto, il chitarrista
Diego Pires è appena entrato a far parte nella line-up dei gloriosi
Warlord, mica “pizza e fichi”), melodie (a tratti) convincenti, ma purtroppo, anche poca personalità che, alla lunga, finisce per catalizzare l'attenzione e penalizzare oltremodo questo lavoro.
Sto parlando di
The Harp, l’esordio discografico degli
Auro Control, brasiliani provenienti da Salvador (Bahia), uscito per la
Rockshots Records.
Ineccepibili le prestazioni e le qualità dei singoli musicisti che si riveleranno il vero e proprio punto di forza del disco; detto già di
Pires, della formazione fanno parte anche il bassista
Thiago Baumgarten (già negli
Hibria e turnista con
Kiko Loureiro), il secondo chitarrista
Lucas Barnery, il batterista
Davi Britto e il bravo vocalist
Lucas De Ouro.
Probabilmente gli
Auro Control, nelle loro intenzioni, vorrebbero proporre un prog-power in salsa brasiliana fresco e ispirato e, a fasi alterne, danno luogo anche a buoni spunti, tuttavia, a conti fatti,
The Harp, è un lavoro che sembra rimanere prigioniero delle sue stesse origini, dalle quali la band giustamente cerca di attingere a piene mani, senza però metterci del suo, risultando cosi eccessivamente derivativo.
Dunque può capitare molto spesso, durante le varie tracce, per quanto queste ultime possano anche essere gradevoli, di avere quella fastidiosa sensazione di “già sentito” e, anziché essere al cospetto di una band esordiente, si ha la forte impressione di ascoltare formazioni connazionali già affermate, quali gli
Almah, i
Noturnall, gli stessi
Hibria, o addirittura gli
Angra della cosiddetta “Era Falaschi” (abbastanza palesi i “richiami” in
Rise Of The Phoenix in cui, non a caso, compare come special guest Aquiles Priester alla batteria, o nella conclusiva
Breaking The Silence), mentre brani come
Not Alone e
Afterglow, per stile ed aggressività, “sconfinano” nei
Symphony X più “recenti” (ammesso che tale termine si possa utilizzare, visto che l’ultimo disco di Romeo e soci risale al 2015!)
E’ un vero peccato che una band cosi preparata tecnicamente e con tali potenzialità, mostri queste carenze creative e compositive che finiscono per svilire un lavoro non privo di momenti positivi, ma che avrebbe potuto essere nettamente più brillante, invece di guadagnarsi semplicemente una sufficienza striminzita e nemmeno troppo convinta.
Va benissimo attingere dalla tradizione, ci mancherebbe altro; ma se tali influenze non vengono poi reinterpretate secondo la propria personale concezione musicale, ci si limita ad un pericoloso e prevedibilissimo “copia-incolla” destinato a non lasciare alcun segno.
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