Sono legatissimo ai
Nile, sono letteralmente cresciuto con loro; senza contare la comune passione per gli egizi e le antiche civiltà. Ciò nonostante non ho mai preso per oro (egizio) colato tutto quello che hanno prodotto e non mi sono mai tirato indietro dal criticare la band di
Karl, soprattutto quando ha fatto uscire album che andavano in direzioni PER ME sbagliate. È successo con la fredda tecnica fine a se stessa di
Sethu, così come in occasione del precedente
Vile Nilotic Rites, un disco bombastico, pomposo, troppo orchestrato e privo di velleità maligne.
Qui trovate la vecchia videorecensione.A dimostrazione del loro status di campioni del genere, ecco che
The Underworld Awaits Us All arriva a spazzare via dubbi, perplessità e mugugni di chi credeva (eccomi!) che la band americana avesse imboccato la pericolosa strada del symphonic death, come mostrato sul precedente lavoro in studio. Sì, la preoccupazione che volessero seguire lo sterile cammino dei Fleashgod Apocaplypse era palpabile. E invece no, i
Nile non vogliono essere qualcun altro, devono solo trovare l’ispirazione, la scintilla giusta per poter riaccendere il fuoco. Ci sono riusciti con questo disco? Direi proprio di sì.
Su
The Underworld Awaits Us All la qualità e la bontà del riffing tornano ad essere in primo piano, così come l'abrasiva alternanza delle voci a vomitare maledizioni e odio.
I brani sono stati asciugati dagli strati di synth che li tenevano imprigionati in una gabbia inoffensiva, il groove appiccicoso è ricomparso per stritolare l’ascoltatore (
"True Gods Of the Desert"), i lunghi titoloni si riaffacciano nella traklist (
"Chapter for Not Being Hung Upside Down on a Stake in the Underworld and Made to Eat Feces by the Four Apes") e il vero death metal può nuovamente invadere la camera del re.
Chi pensava che con il tempo si sarebbero ammorbiditi deve ricredersi. I
Nile di oggi conservano una potenza invidiabile,
George blasta come una mitragliatrice anticarro, mentre i riff che si scambiano le (3!) chitarre sono affilatissimi, precisi e supportati da un suono magistrale mixato da
Mark Lewis, per un’aggressione brutale. Ci sono anche clean vocals che compaiono qua e là (una rarità), mentre anche il lato più atmosferico non è scomparso (
"Lament for the Destruction of Time",
"Doctrine Of Last Things"). Devo dire che i cori e in generale il lavoro delle voci è qualcosa che è stato studiato a fondo per questo album. Anche lo spazio per gli assoli è considerevole e nei vari pezzi sono disseminati pregevoli ricami chitarristici, non buttati tanto per fare, ma costruiti con alternanza di stili e in modo da elevare le canzoni.
The Underworld Awaits Us All è un lavoro che in generale definirei vario, potente e meticolosamente costruito; un disco che certamente ripercorre la tradizione e presenta le caratteristiche (cliché) della band di Greenville ma con quell’ispirazione, quella scintilla che sa trasformare “un pezzo in un gran pezzo”. Non allo stesso modo per tutta la durata dell'album, ma quasi.
La prima parte del disco è letteralmente letale e feroce. Dietro l'angolo c'è sempre qualcosa per cui meravigliarsi, sorprendersi e, in questa caotica tempesta di sabbia, spuntano riff o passaggi “semplici” da ricordare. Un susseguirsi di idee, soluzioni e riff che vengono incisi nella mente come una frusta che schiocca sulla schiena e lacera la carne.
Prima parte, dicevo, che termina con
"Naqada II Enter the Golden Age", che mi ha letteralmente svitato il cranio e cagato dentro. Sfido chiunque a non cominciare a imprecare di felicità e stupore ascoltandola. A me è successo proprio così, mentre guidavo. State attenti.
La breve strumentale
"The Pentagrammathion of Nephren-Ka" (che potrebbe stare su uno dei Saurian project di
Karl) ci introduce alla sezione centrale del lavoro che presenta una sequenza di tre pezzi molto simili per durata e stile, in cui è probabilmente
"Under the Curse of the One God" a spiccare grazie al groove stritolante.
Ci si avvia poi verso un finale più lento e “misurato” con la cadenzata
"True Gods of the Desert" e la lunga
title track, canzone molto varia, dalle tante aperture e soluzioni che comprendono cori femminili! Questo ultimo scorcio del disco è quello che mi ha convinto un pochino meno.
Quanto è bello questo album? La prima parte la definirei commovente per ritrovata ispirazione e incisività, devo dire che tira su molto le quotazioni di questo lavoro. Se fosse un EP sarebbe qualcosa di eccezionale. La sezione centrale è piacevole ma un pochettino stantia, mentre quella finale è abbastanza godibile ma si sente il peso della lungaggine compositiva e della minore ispirazione.
Non sono due riff per canzone e una melodia cantereccia da giudicare; c'è molto lavoro sotto ed è giusto che ognuno si prenda il tempo opportuno per valutare.
A prescindere dal numerino che gli ho apposto (una sorta di media tra i tre settori dell'album, ma potrebbe starci tranquillamente un 8), mi preme sottolineare che
Karl è una persona assolutamente alla mano, che non si atteggia e non si prende troppo sul serio ma, al contrario, prende dannatamente sul serio la sua musica, il suo lavoro, e cerca di buttarci dentro il meglio, cerca di spremere un mix di creatività, capacità e impegno. A 61 cazzo di anni
Karl merita il suo tempio, un po’ come quello splendido di Osirion, a memoria imperitura del suo preziosissimo apporto al nostro genere musicale.